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domenica 9 dicembre 2012

Nuovo segretario alla Cgil Di Dario eletto con 77 voti

Raccoglie il testimone da Di Odoardo, che va in pensione dopo 43 anni «Le mie priorità sono la vertenza dell’Atr, i giovani precari e i pensionati»

TERAMO. La crisi e il dramma dell’occupazione tengono unita la Cgil che ieri ha eletto quasi all’unanimità il nuovo segretario provinciale. A raccogliere il testimone di Giampaolo Di Odoardo è Alberto Di Dario, che è stato eletto ieri dal comitato direttivo provinciale con 77 voti favorevoli e cinque astenuti su un totale di 82 partecipanti all’assemblea. Il suo è il nome che ha messo tutti d’accordo e che incarna le caratteristiche tracciate nelle consultazioni delle scorse settimane dal direttivo provinciale. Ovvero la necessità di eleggere un rappresentante proveniente dal territorio e che rappresenti l’unità del sindacato e delle sue varie anime. E così è stato.

Alberto Di Dario, 58 anni, è nato a Isola del Gran Sasso ed è entrato giovanissimo in Cgil nel 1976 dimostrando grandi capacità organizzative e propositive. Ha rivestito l’incarico di segretario della zona dell’alto Vomano, all’epoca al centro di grandi lotte per il lavoro e cuore pulsante dell’area interna della provincia, ed è stato nel comitato istituzionale per lo sviluppo dell’area e tra i protagonisti dell’istituzione del Parco nazionale Gran Sasso Laga. Da dirigente ha seguito il settore dei lavoratori edili e l’Inca, è stato poi alla guida della Filcea Cgil provinciale, la categoria dei chimici, prima di diventare componente della segreteria provinciale, incarico che ha ricoperto per otto anni. Da ultimo Di Dario ha assunto l’incarico di direttore provinciale dell’Inca e di presidente del Comitato direttivo regionale della Cgil. «La sua vena profonda ambientalista, coniugata alle realtà delle fabbriche e degli uffici», scrive in una nota la segreteria della Cgil, «fanno di lui un dirigente rispettato dalle controparti e stimato dalle compagne e compagni della Cgil».

«Il mio impegno sarà innanzitutto quello di continuare in tutte le vertenze aperte in provincia», ha detto dopo l'elezione Di Dario, «ce ne sono circa 60, tra queste voglio ricordare quella dell'Atr che sicuramente ci sta molto a cuore. Per la Val Vibrata continueremo a chiedere al governo regionale il finanziamento del protocollo già approvato. Ma vogliamo prestare anche molta attenzione al mondo dei giovani e quindi alla precarietà senza dimenticarci dei pensionati e degli anziani, per far sì che i bilanci sociali dei Comuni vadano incontro alle esigenze delle fasce più deboli della società e non dimentichino lo spopolamento delle aree interne». Di Dario ha annunciato anche l'organizzazione entro fine anno di un evento in piazza a Teramo per spiegare i contenuti della riforma sul lavoro visto che «molte imprese la stanno interpretando erroneamente, licenziando ingiustamente i lavoratori a tempo determinato».


L'accordo separato, rifiutato dalla Cgil ma sottoscritto dagli altri sindacati, sulla produttività cancella le tutele su aumenti, orari, mansioni e videosorveglianza. Rischiano di non avere incrementi di stipendio tutti i lavoratori che non firmano accordi aziendali. Il sindacato potrà dare l'ok all'aumento dell'orario settimanale e al demansionamento.


All'indomani della firma separata sul patto per la produttività è il momento di un'analisi più attenta, e sono dolori. Il baricentro della contrattazione, e in particolare su questioni delicate come gli aumenti salariali, gli orari, le mansioni e la videosorveglianza, si sposta dal contratto nazionale (e dalle tutele garantite dalle leggi) alla contrattazione aziendale. Indebolendo, necessariamente, quanto già conquistato fino a oggi collettivamente (spesso sarà una crisi a decidere per nuovi accordi) e non garantendo tutti coloro che, tra l'altro, non riusciranno mai a fare una contrattazione aziendale. Intanto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha giudicato l'accordo «un fatto importante», e subito dopo si è augurato «che non manchi il contributo della Cgil».
In particolare, per quanto riguarda i salari, si prevede che il contratto nazionale possa perdere gli automatismi previsti fino a oggi, che in qualche modo tendevano a garantire il potere di acquisto agganciando gli aumenti all'inflazione: gli incrementi verranno legati alla produttività, contrattata nel secondo livello.
Il tutto sarà sostenuto da una politica di sgravi concessa dal governo: l'esecutivo dovrebbe decidere entro il 15 gennaio la platea dei lavoratori che avranno diritto alla detassazione (al momento è prevista per chi ha un massimo di 30 mila euro di reddito ma i sindacati chiedono che il tetto sia elevato a 40 mila euro), il tetto della retribuzione per il quale sarà previsto il vantaggio fiscale (al momento 2.500 euro ma i sindacati chiedono sia innalzato) e i criteri con i quali il vantaggio sarà assegnato (ovvero quale sia da considerare salario di produttività). Con la tassazione al 10% il lavoratore che dovesse avere un'aliquota del 27% avrebbe un vantaggio di 170 euro per ogni 1.000 euro erogati come salario di produttività.
Gravissimo quanto deciso in merito a orari, mansioni e videosorveglianza, perché è previsto che nei contratti aziendali e territoriali si possa derogare non solo al livello nazionale ma anche rispetto alla legge. E, quel che è più grave, le parti hanno chiesto al Parlamento che queste materie si sottraggano alla tutela legale per metterle tutte in mano alla contrattazione.
Oggi la legge prevede che l'orario sia di 40 ore settimanali e di 8 al giorno con un massimo di 48 ore settimanali compresi gli straordinari. La contrattazione potrebbe prevedere, nel caso di affidamento della materia da parte della legge, criteri di maggiore flessibilità a fronte di specifiche situazioni. Si potrebbe naturalmente prevedere che questa flessibilità sia perlomeno remunerata.
Quanto alle mansioni, l'articolo 2103 del codice civile stabilisce che il lavoratore «deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito». La contrattazione potrebbe regolare la materia in modo differente anche se l'accordo parla di «equivalenza delle mansioni e integrazione delle competenze»: insomma di fatto si potrà prevedere il demansionamento dei lavoratori.
Infine, il controllo a distanza: attualmente è vietato dallo Statuto dei lavoratori. L'accordo prevede «l'affidamento alla contrattazione collettiva delle modalità attraverso cui rendere compatibile l'impiego di nuove tecnologie con la tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori, per facilitare l'attivazione di strumenti informatici ordinari, indispensabili per lo svolgimento delle attività lavorative». Un'altra picconata allo Statuto, dopo lo stravolgimento dell'articolo 18.
La segretaria Cgil Susanna Camusso aveva già spiegato la sera della firma separata le ragioni del no: la tutela del contratto nazionale e di aumenti che garantiscano a tutti un reale potere di acquisto; la difesa di diritti fondamentali legati a orari, mansioni, videosorveglianza; nuove regole di rappresentanza che garantiscano anche chi non firma gli accordi, e in particolare la richiesta esplicita a Federmeccanica di riprendere a contrattare con la Fiom, oggi esclusa.
Dall'altro lato, secondo Raffaele Bonanni (Cisl) «i lavoratori pagheranno 3 volte meno tasse». Per il leader del Pd Pierluigi Bersani l'accordo centra «l'obiettivo di estendere la contrattazione decentrata», ma poi invita il governo a «continuare la discussione» per «ricomporre l'unità sindacale».


venerdì 23 novembre 2012

Legittimo il rifiuto di lavorare se manca la tutela della salute



Il datore che non adotta le misure necessarie di tutela della salute sul lavoro è da considerare inadempiente rispetto al lavoratore. Questa condotta giustifica dunque, in base al l'articolo 1460 del Codice civile, il rifiuto di lavorare in ambienti non sicuri e fa permanere, a carico del primo, l'obbligo di retribuire chi si sia astenuto in ragione di quell'inadempimento. È l'interpretazione che si desume dalla sentenza della Cassazione n. 18921 del 5 novembre 2012 (sezione Lavoro).
Il caso riguarda una parte del personale di una grande officina, nei cui locali erano state svolte lavorazioni che avevano determinato un inquinamento da amianto. Nonostante la bonifica realizzata dal datore, i dipendenti, preoccupati anche dai contenuti di un verbale di sopralluogo svolto da specialisti della società, chiedono la sospensione del lavoro e ulteriori interventi. Il datore li nega e i lavoratori si astengono dal continuare a lavorare, pur rendendosi disponibili a farlo in altri locali aziendali. Intervenuto il giudice penale, il pericolo alla salute è scongiurato e le maestranze decidono di ritornare in azienda. Il datore, a quel punto, rifiuta, però, di pagare la retribuzione per il mese e mezzo di astensione.
Inevitabile il ricorso da parte dei dipendenti al giudice del lavoro: essi sostengono che la loro condotta fosse da considerare legittima reazione all'inadempimento di obblighi di sicurezza gravanti sul datore e chiedono il pagamento della retribuzione. I due giudizi di merito si concludono positivamente per i ricorrenti. La decisione di secondo grado, in particolare, si basa su perizie che evidenziano difetti nell'organizzazione delle operazioni di bonifica con conseguente dispersione di residui di amianto nei locali di lavoro.
Proprio questo aspetto, secondo i giudici, rappresenta il nucleo dell'inadempimento del datore sugli obblighi previsti dall'articolo 2087 del Codice civile e giustifica, sul piano giuridico, il rifiuto di lavorare dei prestatori. La società ricorre in Cassazione. La Corte sottolinea, principalmente, due profili. In primo luogo, i giudici d'appello hanno bene interpretato l'articolo 2087 del Codice civile, secondo cui ogni datore deve adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica dei prestatori di lavoro: essi, infatti, hanno censurato il datore per la violazione delle regole di comportamento che la stessa società aveva fissato ed emanato per eliminare/ridurre i rischi. La decisione di merito, inoltre, rivela una corretta applicazione del l'articolo 1460 del Codice civile, in base al quale, nei contratti con prestazioni corrispettive come è quello di lavoro, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la propria obbligazione, se l'altro non adempie.
In questo senso, i giudici hanno valutato la condotta dei lavoratori come reazione al l'inadempimento datoriale.
La Corte dunque ha rigettato il ricorso e condannato la ricorrente.

lunedì 12 novembre 2012

Ad un anno esatto dall'insediamento di Monti, i dati macro-economici sono così cambiati. Pil: +0,4% nel 2011, -2,3% nel 2012; domanda interna: -1,0% nel 2011, -5,0% nel 2012; inflazione: +2,9 nel 2011, +3,2 nel 2012; tasso disoccupazione: 8,4% nel 2011, 10,6% nel 2012; famiglie in grado di risparmiare: 35% nel 2011, 28% nel 2012. Ed infine, rapporto debito pubblico/Pil: 120,7% nel 2011, 126,5% nel 2012; spesa per interessi/Pil: 4,9% nel 2011, 5,4% nel 2012. (Dati tratti dal Sole 24 Ore del 9 novembre 2012).
Ma quanti buoni motivi per proseguire con l'Agenda Monti!

14 novembre: la mobilitazione in Europa, gli appuntamenti

Roma, Bucarest, Praga, Stoccolma, Madrid, Lisbona, Atene e in tante altre città europee, il 14 novembre scenderanno in piazza i lavoratori e le lavoratrici per dire: l'austerità non funziona, è necessario un cambio di rotta per ridare impulso al lavoro e per ristabilire la giustizia sociale e la solidarietà tra i paesi. Manifestazioni, sit-in e scioperi generali si susseguiranno per tutta la giornata

Roma, Bucarest, Praga, Stoccolma, Madrid, Lisbona, Atene e in tante altre città europee, il 14 novembre scenderanno in piazza i lavoratori e le lavoratrici per dire: l'austerità non funziona, è necessario un cambio di rotta per ridare impulso al lavoro e per ristabilire la giustizia sociale e la solidarietà tra i paesi. Manifestazioni, sit-in e scioperi generali si susseguiranno per tutta la giornata, in occasione della mobilitazione indetta dalla Confederazione Europea dei Sindacati alla quale ha aderito anche la CGIL con uno sciopero generale di 4 e 8 ore e cortei in tutta Italia.
A pagare a caro prezzo i costi della crisi e le conseguenze delle politiche di austerità sono proprio i lavoratori e le lavoratrici, mentre “il mondo della finanza e gli speculatori continuano a prosperare” denuncia la CES che, sottolinea come in Europa 25milioni di persone non hanno un'occupazione e che, in alcuni paesi, il tasso di disoccupazione giovanile supera il 50%.
Il senso di ingiustizia cresce e con esso anche lo scontento sociale, per questo i sindacati europei chiamano tutte le lavoratrici ed i lavoratori a partecipare alla giornata di mobilitazione proclamata per mercoledì prossimo. Secondo la CES, è indispensabile innanzitutto ricostruire una solidarietà tra i cittadini europei affinchè le rivendicazioni siano sempre più forti, come la lotta allo smantellamento dello stato sociale, alla flessibilità del mercato del lavoro, alla privatizzazione dei servizi pubblici, alla pressione sul ribasso dei salari, alla diminuzione delle pensioni. Per il lavoro e la solidarietà, contro le disuguaglianze sociali in piazza il 14 novembre.

lunedì 5 novembre 2012

CONTRATTO CHIMICI: LA FILCTEM-CGIL SCIOGLIE LA RISERVA MA AVVERTE: I "PUNTI DI CRITICITÀ" DEVONO TROVARE SOLUZIONE AL TAVOLO

“Sul contratto del settore chimico-farmaceutico, la Filctem-Cgil scioglie la riserva, soprattutto per la responsabilità di tenere vivo un sistema positivo di relazioni industriali che rischia di implodere se non si giungerà ad una comune valutazione”: è il testo della lettera che proprio oggi
il segretario generale della Filctem-Cgil, Emilio Miceli, ha inviato alle associazioni imprenditoriali di Confindustria, Federchimica e Farmindustria e, per conoscenza, alle organizzazioni sindacali Femca-Cisl e Uilcem-Uil. Ma – si legge nella lettera - la Filctem-Cgil è convinta che si debbano trovare le soluzioni ai “punti di criticità” sollevati, proprio nella fase dei “rimandi” e del completamento dei testi contrattuali.

domenica 14 ottobre 2012

Lavoro: CGIL in piazza San Giovanni il 20 ottobre


“Il lavoro prima di tutto”. La CGIL torna in Piazza San Giovanni a Roma per una grande manifestazione nazionale il 20 ottobre dalle 10,30 alle 17,30. Una mobilitazione che nasce dall'esigenza, come ribadito più volte in questi mesi, di riunificare le tante vertenze aperte ripartendo dal lavoro.



Il 20 ottobre la CGIL porterà in piazza le testimonianze delle diverse realtà italiane che ogni giorno fanno i conti con un una crisi che sta mettendo in ginocchio interi territori. Inoltre, sarà un'occasione per dare voce ai tanti lavoratori che in questi giorni stanno portando avanti azioni di protesta per difendere il loro posto di lavoro ed essere ascoltati.

LA CGIL CHE VOGLIAMO FILCTEM

BOCCIARE L'IPOTESI DI ACCORDO PER RIAPRIRE LA TRATTATIVA
QUESTA E' L'UNICA STRADA CREDIBILE DA PERCORRERE
PER RIAPPROPRIARCI DEL CONTRATTO NAZIONALE
documento approvato da La CGIL che Vogliamo al Direttivo Naz. Filctem
L'ipotesi di accordo del contratto chimico, delegando alle RSU la facoltà di modificare quasi completamente l'intero contratto nazionale e per di più rinunciando nel contempo ad imporre dei limiti invalicabili agli interventi peggiorativi, apre una voragine pericolosissima alla tenuta stessa del contratto nazionale.
Ogni margine di difesa precedente viene compromesso da una delega che ha più il sapore dello scaricabarile, che del riconoscimento al ruolo fondamentale delle RSU.

Pensare che in una condizione economica dove gran parte delle RSU si trova sotto pressione per le difficoltà delle imprese, le ristrutturazioni, le CIG e le mobilità, sia vantaggioso per la categoria dare la parola d'ordine "ognuno per sé" alle RSU è a nostro avviso quantomeno bizzarro oltre che irresponsabile.
Non è un caso che le imprese esultino per far diventare quello chimico il modello del nuovo contratto all'insegna della produttività e non è un caso che dentro la CGIL si sia aperto un dibattito rovente sulla firma che va ben oltre le vicende interne dell'organizzazione.
Ma non è finita qui, nell'ipotesi firmata si introduce il doppio regime salariale!
La disponibilità a derogare sui minimi nelle assunzioni dei "giovani", fatta tra l'altro in un momento in cui la precarizzazione è il dato normale delle assunzioni e la fame di lavoro già si traduce nell'accettazione diffusa di peggiori condizioni di impiego, significa sancire che d'ora in poi, nella categoria, ogni assunzione dovrà sottostare al ricatto di un salario più basso.
Un elemento che oltre a penalizzare i nuovi assunti, finirà inevitabilmente per scaricarsi anche sugli altri lavoratori diventati così più costosi e meno competitivi.
E' utile qui ricordare che i licenziamenti per motivi oggettivi ed economici stanno già partendo e costituiscono l'altro lato della tenaglia che preme sul lavoro, dopo le modifiche pesanti all'articolo 18 dello statuto dei lavoratori.
E ALLORA NON ABBIAMO SCELTA, DOBBIAMO ESSERE CHIARI CON I LAVORATORI
Noi pensiamo che in questa situazione CGIL e FILCTEM dovrebbero dire con chiarezza ai lavoratori che la FILCTEM ritirerà la propria firma dal contratto, se prima delle assemblee non cambieranno radicalmente quei contenuti dirompenti dell'ipotesi di accordo; altrimenti, l'unico modo per riaprire la discussione è la bocciatura di quell'ipotesi!
Non esiste la possibilità di dire di SI' e contemporaneamente chiedere modifiche radicali di tale importanza. Il voto nelle assemblee prevede un SI' oppure un NO.
Solo una bocciatura rimette nelle mani della delegazione trattante la partita. Questo definiscono le regole unitarie.
La chiarezza delle scelte è un elemento chiave: l'ipotesi per noi deve essere respinta e la trattativa deve essere riaperta. Si potrà riaprirla? Forse non sarà semplice, ma noi sappiamo che oltre 400.000 lavoratori sono in campo a rinnovare i contratti nei nostri comparti. Sono una potenza perché sono la fonte della ricchezza del paese, ma sono una potenza anche quando si fermano e scendono in lotta; dimenticarlo sarebbe irresponsabile.

giovedì 27 settembre 2012




Sabato 22 settembre, tra le associazioni imprenditoriali Federchimica, Farmindustria (entrambi associate a Confindustria) e i sindacati del settore Filctem-Cgil, Femca-Cisl, Uilcem-Uil è stata siglata l'ipotesi di accordo per il rinnovo del contratto 2013-2015 del settore chimico-farmaceutico (più di 190.000 i lavoratori interessati, impiegati in oltre 1600 imprese, il 90% delle quali piccole e medie), tre mesi prima della scadenza naturale del 31 dicembre 2012.
L'intesa sottoscritta prevede un aumento medio di 148, distribuito su minimi e Ipo, in quattro “tranche”: dal 1 dicembre 2012,10 euro, che rappresenta il recupero del differenziale previsto dal precedente contratto; dal 1 gennaio 2013, 33 euro; dal 1 gennaio 2014, 43 euro; dal 1 gennaio 2015, 47 euro; dal 1 ottobre 2015, 15 euro. In sostanza, nel triennio 2013-2015, entreranno nelle buste paga dei lavoratori 3.466 euro rispetto ai 3.367 del contratto precedente.


martedì 25 settembre 2012






Quanta gente da rottamare con Marchionne : di Giorgio Cremaschi

Improvvisamente l'amministratore delegato della Fiat diventa una persona
imbarazzante per tutto il palazzo che l'ha cosi a lungo esaltato. Il ministro
Fornero implora telefonate per capire, tutti vogliono chiarezza.
Due anni fa Marchionne avviava a Pomigliano la fase finale della distruzione
del sistema contrattuale e dei diritti del lavoro, da quello alle pause, a
quello allo sciopero e alle stesse libertà sindacali.
Lo scopo era presentato come il rilancio della Fiat come grande
multinazionale, che non poteva più tollerare i lacci e lacciuoli delle leggi e
dei contratti italiani. Eugenio Scalfari dedicò diversi suoi interventi a
spiegare che il mondo era cambiato che, come diceva il capo fiat senza tema di
sembrare un poco immodesto, Pomigliano segnava una nuova epoca, si entrava nel
dopo Cristo della globalizzazione.
Sull'onda di quel pensiero si mosse gran parte del centro sinistra, escluse le
forze che in questi giorni hanno presentato i referendum per restituire ai
lavoratori l'articolo 18, cancellato dalla controriforma del lavoro.
Bersani dichiarò, naturalmente con sofferenza, che bisognava accettare il
massacro a Pomigliano purché restasse una "eccezione"..Il suo attuale
avversario Renzi disse semplicemente: "io sto con Marchionne". Sacconi lanciava
peana e anche la Lega nord, da sempre a parole nemica del potere Fiat, si
convertiva sulla via di Detroit. Il neo eletto presidente del Piemonte Cota
diventava un pasdaran del piano , naturalmente in compagnia dei sindaci Pd di
Torino vecchio e nuovo, Chiamparino futuro banchiere e Fassino, che si travestì
da operaio affermando:" se fossi in fabbrica voterei sì".
Il rettore della Bocconi Mario Monti scrisse un lungo articolo sul Corriere
per esaltare le due vere modernizzazioni dell'Italia, la riforma Gelmini e l
piano Marchionne. Nel sindacato come si sa Cisl , Uil e Ugl diventarono alfieri
sfacciati dell'azienda e solo la Fiom ed i sindacati di base si schierarono
contro. La Cgil scricchiolò e tentennò, con quella campana a favore e quella
nazionale più cauta, salvo lasciar trapelare la richiesta alla Fiom di
effettuare una firma "tecnica".
Tutto questo in un clima informativo monocorde, come oggi con il governo
Monti, ove ogni spirito critico veniva messo all'indice come ideologia d'altri
tempi.
Così la domanda fondamentale: ammesso che le condizioni poste siano
accettabili, quanto è credibile il piano aziendale? Questa domanda non venne
mai posta ne' sui mass media, tranne da tre giornalisti seri e inascoltati, né
dalle istituzioni, né da sindacati e partiti complici. Contemporaneamente in
Germania sindacati e governo ponevano le domande vere all'amministratore
delegato Fiat che voleva rilevare la Opel, e viste le risposte lo cacciavano
senza rimpianto.
Il piano Fiat prevedeva 20 miliardi di euro di investimenti, e un milione e
quattrocentomila auto prodotte nel 2014. Oggi Cisl e Uil in evidente difficoltà
danno la colpa alla caduta del mercato.
Ma a parte il fatto che tre anni fa la crisi era già cominciata e qualche
previsione la si poteva fare, il punto è che con quel piano l'azienda prevedeva
di RADDOPPIARE in poco tempo la produzione in Italia e di MOLTIPLICARE PER 20
gli investimenti in atto. Dove erano i soldi, le catene di montaggio, i modelli
e il marketing per un piano così grandioso? Non c'era nulla se non un intenso
lavoro degli uffici pubbliche relazioni sui palazzi..
Ora questo piano inventato e privo di credibilità sin dall'inizio, viene
ufficialmente abbandonato. Nel frattempo Marchionne e la famiglia Agnelli hanno
guadagnato tanti soldi dall'affare americano e da tanti altri. I profitti sono
risanati e le fabbriche si preparano a chiudere. E' quello che sta succedendo a
tutto il paese con la politica di Monti.
Se vogliamo superare la crisi economica delle persone e dell'economia
materiale, dobbiamo rottamare tutta la classe dirigente che ha creduto a
Marchionne.

lunedì 27 agosto 2012

VISITA DI IDONEITA'

L’art 41 comma 6 bis prevede che il medico competente “esprima il proprio giudizio per iscritto dando copia del giudizio medesimo al lavoratore e al datore di lavoro”
(Il medico in caso di violazione dell’articolo di cui sopra è sanzionato con sanzione amministrativa pecuniaria da 1000 a 4000 euro)

In alcune realtà lavorative, contrariamente alla norma e alla prassi della stragrande parte delle aziende, il medico competente non consegna al lavoratore copia del CIL contestualmente alla effettuazione della visita medica.

La consegna immediata del CIL è indispensabile affinchè:
il lavoratore sia messo a conoscenza di eventuali prescrizione, possa richiedere spiegazioni immediate al medico competente e avvalersi in caso non concordi con il giudizio del medico stesso della facoltà di ricorrere (entro 30 giorni) all’ASL di competenza
(art 41 comma 9 Dlgvo 81/08).
le prescrizione del medico competente vengano puntualmente fatte rispettare in fase di applicazione lavorativa del lavoratore stesso
(art 18 comma 1 lett. c Dlgvo 81)
unica eccezione alla consegna immediata del CIL è che il medico competente ritenga necessario sottoporre il lavoratore ad ulteriori esami al fine di stabilire la sua idoneità alla mansione specifica.
Ulteriori esami sono sempre a carico del Datore di Lavoro
art 41 comma 4 Dlgvo 81/08.
Invitiamo i lavoratori a richiedere immediatamente copia del certificato di idoneità lavorativa per iscritto utilizzando il modello predisposto, copia del quale va consegnata al RLS della vostra azienda
Il diritto per il lavoratore di ricevere copia della documentazione medica è ribadito dal Testo Unico sulla sicurezza ed è tra gli obblighi del medico competente:
“informa ogni lavoratore interessato dei risultati della sorveglianza sanitaria di cui all’articolo 41 e, a richiesta dello stesso, gli rilascia copia della documentazione sanitaria” (art 25 comma 1 lettera h Dlgvo 81/08)

Siamo Di Nuovo Online !!!!!!


lunedì 16 luglio 2012


CONTRATTI: PIATTAFORME UNITARIE PER I RINNOVI
DALLE ASSEMBLEE UNITARIE DEI QUADRI E DELEGATI VIA LIBERA A LAVANDERIE INDUSTRIALI, ELETTRICI, CHIMICI E FARMACEUTICI, GOMMA-PLASTICA, GAS-ACQUA, ENERGIA E PETROLIO

Si apre la stagione dei rinnovi contrattuali in importanti settori industriali italiani (chimico-farmaceutico, gomma-plastica, energia e petrolio, gas-acqua, elettrico, lavanderie industriali) che riguardano circa 500.000 lavoratori: contratti questi - ad eccezione delle lavanderie industriali - tutti in scadenza il 31 dicembre 2012. Nonostante la difficile situazione sociale e la pesante crisi economica in atto in Italia e in Europa, gli organismi unitari delle Federazioni Cgil, Cisl, Uil dei chimici dell'energia e dei tessili
(Filctem, Femca e Flaei, Uilcem e Uilta) sono riusciti nella non facile impresa di discutere e approvare le piattaforme contrattuali unitarie, che saranno immediatamente spedite alle associazioni imprenditoriali di riferimento per un rapido avvio delle trattative. Intanto, il 28 giugno a Bologna è stata definitivamente approvata la piattaforma Filctem, Femca, Uilta per il rinnovo del contratto 1 luglio 2012 - 30 giugno 2015 dagli oltre 20.000 dipendenti delle lavanderie industriali. Inoltre il 9 luglio, via libera all'approvazione della piattaforma Filctem, Flaei, Uilcem per il rinnovo del contratto 2013-2015 dei 60.000 lavoratori elettrici, così come pure l'11 luglio sono state definitivamente approvate le piattaforme per i settori chimico-farmaceutico e gomma-plastica. Infine (12 luglio) l'Assemblea dei quadri e delegati Filctem, Femca, Uilcem ha approvato anche le piattaforme per i contratti gas-acqua ed energia e petrolio.

sabato 2 giugno 2012


La manipolazione mediatica ormai non ha confini. Il consenso politico e quello d’opinione è regolato attraverso ben precise strategie mediatiche che si appoggiano su 10 regole di base. Noam Chomsky ci aiuta a svelare l’inganno.
Per questo ringrazio l’amico Tonino Basile che mi ha girato questo scritto da leggere con attenzione e riflettere.
In questi giorni di forte instabilità politica si riaccendono i toni e si rimescolano i temi che hanno animato il calderone mediatico degli ultimi 15 anni: sicurezza, giustizia, economia, tradimento, sesso. Nel nostro Paese succede che molti ingenui continuino ad esempio a meravigliarsi delle boutade del presidente del Consiglio, limitandosi a bollare barzellette e proclami del premier brianzolo come uscite inammissibili, senza considerare quanta macchinazione logica stia dietro ad ogni singola affermazione. Un meccanismo ben oliato a cui fanno ricorso non solo uomini politici, ma esperti di marketing e uomini di potere in genere. Un noto studioso di linguistica come Noam Chomsky ha stilato una lista di 10 regole, che vengono utilizzate per drogare le menti, ammaliandole, confondendo in loro ogni percezione, rimescolando realtà e fantasia, evidenza e costruzione illusoria. Ecco quali sono:
1-La strategia della distrazione
L‚elemento primordiale del controllo sociale è la strategia della distrazione che consiste nel deviare l‚attenzione del pubblico dai problemi importanti e dei cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche, attraverso la tecnica del diluvio o inondazioni di continue distrazioni e di informazioni insignificanti. La strategia della distrazione è anche indispensabile per impedire al pubblico d‚interessarsi alle conoscenze essenziali, nell‚area della scienza, l‚economia, la psicologia, la neurobiologia e la cibernetica. ‚Mantenere l‚Attenzione del pubblico deviata dai veri problemi sociali, imprigionata da temi senza vera importanza. Mantenere il pubblico occupato, occupato, occupato, senza nessun tempo per pensare, di ritorno alla fattoria come gli altri animali (citato nel testo ‚Armi silenziose per guerre tranquille‚).
2- Creare problemi e poi offrire le soluzioni
Questo metodo è anche chiamato ‚problema- reazione- soluzione‚. Si crea un problema, una ‚situazione‚ prevista per causare una certa reazione da parte del pubblico, con lo scopo che sia questo il mandante delle misure che si desiderano far accettare. Ad esempio: lasciare che si dilaghi o si intensifichi la violenza urbana, o organizzare attentati sanguinosi, con lo scopo che il pubblico sia chi richiede le leggi sulla sicurezza e le politiche a discapito della libertà. O anche: creare una crisi economica per far accettare come un male necessario la retrocessione dei diritti sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici.
3- La strategia della gradualità
Per far accettare una misura inaccettabile, basta applicarla gradualmente, a contagocce, per anni consecutivi. E‚ in questo modo che condizioni socioeconomiche radicalmente nuove (neoliberismo) furono imposte durante i decenni degli anni 80 e 90: Stato minimo, privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione in massa, salari che non garantivano più redditi dignitosi, tanti cambiamenti che avrebbero provocato una rivoluzione se fossero state applicate in una sola volta.
4- La strategia del differire
Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come ‚dolorosa e necessaria, ottenendo l‚accettazione pubblica, nel momento, per un‚applicazione futura. E‚ più facile accettare un sacrificio futuro che un sacrificio immediato. Prima, perché lo sforzo non è quello impiegato immediatamente. Secondo, perché il pubblico, la massa, ha sempre la tendenza a sperare ingenuamente che ‚tutto andrà meglio domani‚e che il sacrificio richiesto potrebbe essere evitato. Questo dà più tempo al pubblico per abituarsi all‚idea del cambiamento e di accettarlo rassegnato quando arriva il momento.
5- Rivolgersi al pubblico come ai bambini
La maggior parte della pubblicità diretta al gran pubblico, usa discorsi, argomenti, personaggi e una intonazione particolarmente infantile, molte volte vicino alla debolezza, come se lo spettatore fosse una creatura di pochi anni o un deficiente mentale. Quando più si cerca di ingannare lo spettatore più si tende ad usare un tono infantile. Perché? ‚Se qualcuno si rivolge ad una persona come se avesse 12 anni o meno, allora, in base alla suggestionabilità, lei tenderà, con certa probabilità, ad una risposta o reazione anche sprovvista di senso critico come quella di una persona di 12 anni o meno (vedere ‚Armi silenziosi per guerre tranquille‚).
6- Usare l‚aspetto emotivo molto più della riflessione
Sfruttate l’emozione è una tecnica classica per provocare un corto circuito su un’analisi razionale e, infine, il senso critico dell’individuo. Inoltre, l’uso del registro emotivo permette aprire la porta d‚accesso all‚inconscio per impiantare o iniettare idee, desideri, paure e timori, compulsioni, o indurre comportamenti.
7- Mantenere il pubblico nell‚ignoranza e nella mediocrità
Far si che il pubblico sia incapace di comprendere le tecnologie ed i metodi usati per il suo controllo e la sua schiavitù. ‚La qualità dell‚educazione data alle classi sociali inferiori deve essere la più povera e mediocre possibile, in modo che la distanza dell‚ignoranza che pianifica tra le classi inferiori e le classi superiori sia e rimanga impossibile da colmare dalle classi inferiori”.
8- Stimolare il pubblico ad essere compiacente con la mediocrità
Spingere il pubblico a ritenere che è di moda essere stupidi, volgari e ignoranti…
9- Rafforzare l‚auto-colpevolezza
Far credere all‚individuo che è soltanto lui il colpevole della sua disgrazia, per causa della sua insufficiente intelligenza, delle sue capacità o dei suoi sforzi. Così, invece di ribellarsi contro il sistema economico, l‚individuo si auto svaluta e s‚incolpa, cosa che crea a sua volta uno stato depressivo, uno dei cui effetti è l'inibizione della sua azione. E senza azione non c‚è rivoluzione!
10- Conoscere gli individui meglio di quanto loro stessi si conoscano
Negli ultimi 50 anni, i rapidi progressi della scienza hanno generato un divario crescente tra le conoscenze del pubblico e quelle possedute e utilizzate dalle élites dominanti. Grazie alla biologia, la neurobiologia, e la psicologia applicata, il ‚sistema‚ ha goduto di una conoscenza avanzata dell‚essere umano, sia nella sua forma fisica che psichica. Il sistema è riuscito a conoscere meglio l‚individuo comune di quanto egli stesso si conosca. Questo significa che, nella maggior parte dei casi, il sistema esercita un controllo maggiore ed un gran potere sugli individui, maggiore di quello che lo stesso individuo esercita su sé stesso.

giovedì 31 maggio 2012







LAVORO:

UNA RIFORMA A FAVORE DEL PIU' “FORTE”


SABATO 9 GIUGNO ORE 9,00


LOGGIATO BELVEDERE

GIULIANOVA PAESE

ASSEMBLEA PUBBLICA

CON

GIORGIO CREMASCHI


lunedì 14 maggio 2012

NON VOTATELA !!!


                                  APPELLO ALLE SENATRICI E AI SENATORI
                                           DELLA REPUBBLICA ITALIANA


Noi lavoratrici e lavoratori, precari, disoccupati, cassaintegrati, pensionati vi chiediamo di NON VOTARE A FAVORE del Disegno di legge 3249, ovvero la “controriforma del lavoro”


Questo disegno di legge, se approvato, sancirà la libertà di licenziare, favorirà la precarietà, peggiorerà le condizioni di chi perde il lavoro, senza garantire reddito a chi un lavoro non lo ha.


Noi respingiamo il tentativo, contenuto nel disegno di legge, di contrapporre i diritti di chi li ha conquistati con i sacrifici e le lotte, ai bisogni di precari e disoccupati.


Noi respingiamo la logica secondo cui cancellando l’articolo 18 e peggiorando le condizioni di vita e di lavoro si favorisca lo sviluppo e si superi la crisi.


Noi respingiamo l’idea che per pagare il debito e soddisfare gli appetiti di banche e finanza sia necessario cancellare il futuro dei giovani, le pensioni degli anziani.



                             FIRMA ANCHE TU  L'APPELLO AI SENATORI

CLICCA SU QUESTO LINK:      http://www.usb.it/index.php?id=nonvotatela

lunedì 30 aprile 2012

Non Ci Toglierete Mai il Diritto di Esprimerci !!!




















Storia del 1° Maggio
Il 1 Maggio nasce come momento di lotta internazionale di tutti i lavoratori, senza barriere geografiche, né tanto meno sociali, per affermare i propri diritti, per raggiungere obiettivi, per migliorare la propria condizione.
"Otto ore di lavoro, otto di svago, otto per dormire" fu la parola d'ordine, coniata in Australia nel 1855, e condivisa da gran parte del movimento sindacale organizzato del primo Novecento. Si aprì così la strada a rivendicazioni generali e alla ricerca di un giorno, il primo Maggio, appunto, in cui tutti i lavoratori potessero incontrarsi per esercitare una forma di lotta e per affermare la propria autonomia e indipendenza.
La storia del primo Maggio rappresenta, oggi, il segno delle trasformazioni che hanno caratterizzato i flussi politici e sociali all'interno del movimento operaio dalla fine del secolo scorso in poi.

Le origini
Dal congresso dell'Associazione internazionale dei lavoratori - la Prima Internazionale - riunito a Ginevra nel settembre 1866, scaturì una proposta concreta: "otto ore come limite legale dell'attività lavorativa".
A sviluppare un grande movimento di lotta sulla questione delle otto ore furono soprattutto le organizzazioni dei lavoratori statunitensi. Lo Stato dell'Illinois, nel 1866, approvò una legge che introduceva la giornata lavorativa di otto ore, ma con limitazioni tali da impedirne l'estesa ed effettiva applicazione. L'entrata in vigore della legge era stata fissata per il 1 Maggio 1867 e per quel giorno venne organizzata a Chicago una grande manifestazione. Diecimila lavoratori diedero vita al più grande corteo mai visto per le strade della città americana.
Nell'ottobre del 1884 la Federation of Organized Trades and Labour Unions indicò nel 1 Maggio 1886 la data limite, a partire dalla quale gli operai americani si sarebbero rifiutati di lavorare più di otto ore al giorno.

1886: I "martiri di Chicago"
Il 1 Maggio 1886 cadeva di sabato, allora giornata lavorativa, ma in dodicimila fabbriche degli Stati Uniti 400 mila lavoratori incrociarono le braccia. Nella sola Chicago scioperarono e parteciparono al grande corteo in 80 mila. Tutto si svolse pacificamente, ma nei giorni successivi scioperi e manifestazioni proseguirono e nelle principali città industriali americane la tensione si fece sempre più acuta. Il lunedì la polizia fece fuoco contro i dimostranti radunati davanti ad una fabbrica per protestare contro i licenziamenti, provocando quattro morti. Per protesta fu indetta una manifestazione per il giorno dopo, durante la quale, mentre la polizia si avvicinava al palco degli oratori per interrompere il comizio, fu lanciata una bomba. I poliziotti aprirono il fuoco sulla folla. Alla fine si contarono otto morti e numerosi feriti. Il giorno dopo a Milwaukee la polizia sparò contro i manifestanti (operai polacchi) provocando nove vittime. Una feroce ondata repressiva si abbatté contro le organizzazioni sindacali e politiche dei lavoratori, le cui sedi furono devastate e chiuse e i cui dirigenti vennero arrestati. Per i fatti di Chicago furono condannati a morte otto noti esponenti anarchici malgrado non ci fossero prove della loro partecipazione all'attentato. Due di loro ebbero la pena commutata in ergastolo, uno venne trovato morto in cella, gli altri quattro furono impiccati in carcere l'11 novembre 1887. Il ricordo dei "martiri di Chicago" era diventato simbolo di lotta per le otto ore e riviveva nella giornata ad essa dedicata: il 1 Maggio.

1890: 1 maggio, per la prima volta manifestazione simultanea in tutto il mondo
Il 20 luglio 1889 il congresso costitutivo della Seconda Internazionale, riunito a Parigi, decise che "una grande manifestazione sarebbe stata organizzata per una data stabilita, in modo che simultaneamente i tutti i paesi e in tute le città, i lavoratori avrebbero chiesto alle pubbliche autorità di ridurre per legge la giornata lavorativa a otto ore".
La scelta cadde sul primo Maggio dell'anno successivo, appunto per il valore simbolico che quella giornata aveva assunto.
In Italia come negli altri Paesi il grande successo del 1 Maggio, concepita come manifestazione straordinaria e unica, indusse le organizzazioni operaie e socialiste a rinnovare l'evento anche per 1891. Nella capitale la manifestazione era stata convocata in pazza Santa Croce in Gerusalemme, nel pressi di S.Giovanni. La tensione era alta, ci furono tumulti che provocarono diversi morti e feriti e centinaia di arresti tra i manifestanti.
Nel resto d'Italia e del mondo la replica del 1 Maggio ebbe uno svolgimento più tranquillo. Lo spirito di quella giornata si stava radicando nelle coscienze dei lavoratori.

1891: la festa dei lavoratori diventa permanente
Nell'agosto del 1891 il II congresso dell'Internazionale, riunito a Bruxelles, assunse la decisione di rendere permanente la ricorrenza. D'ora in avanti il 1 Maggio sarebbe stato la "festa dei lavoratori di tutti i paesi, nella quale i lavoratori dovevano manifestare la comunanza delle loro rivendicazioni e della loro solidarietà".

Il primo maggio durante il fascismo
Nel nostro Paese il fascismo decise la soppressione del 1 Maggio, che durante il ventennio fu fatto coincidere il con la celebrazione del 21 aprile, il cosiddetto Natale di Roma. Mentre la festa del lavoro assume una connotazione quanto mai "sovversiva", divenendo occasione per esprimere in forme diverse (dal garofano rosso all'occhiello, alle scritte sui muri, dalla diffusione di volantini alla riunione in osteria) l'opposizione al regime. Il 1 Maggio tornò a celebrarsi nel 1945, sei giorno dopo la liberazione dell'Italia.

1947: L'eccidio di Portella della Ginestra
La pagina più sanguinosa della festa del lavoro venne scritta nel 1947 a Portella della Ginestra, dove circa duemila persone del movimento contadino si erano date appuntamento per festeggiare la fine della dittatura e il ripristino delle libertà, mentre cadevano i secolari privilegi di pochi, dopo anni di sottomissione a un potere feudale. La banda Giuliano fece fuoco tra la folla, provocando undici morti e oltre cinquanta feriti. La Cgil proclamò lo sciopero generale e puntò il dito contro "la volontà dei latifondisti siciliani di soffocare nel sangue le organizzazioni dei lavoratori".
La strage di Portella delle Ginestre, secondo l'allora ministro dell'Interno, Mario Scelba, chiamato a rispondere davanti all'Assemblea Costituente, non fu un delitto politico. Ma nel 1949 il bandito Giuliano scrisse una lettera ai giornali e alla polizia per rivendicare lo scopo politico della sua strage. Il 14 luglio 1950 il bandito fu ucciso dal suo luogotenente, Gaspare Pisciotta, il quale a sua volta fu avvelenato in carcere il 9 febbraio del 1954 dopo aver pronunciato clamorose rivelazioni sui mandanti della strage di Portella.

Il primo Maggio oggi
Le profonde trasformazioni sociali, il mutamento delle abitudini, la progressiva omogeneizzazione delle abitudini hanno profondamente cambiato il significato di una ricorrenza che aveva sempre esaltato la distinzione della classe operaia. Il modo di celebrare il 1 maggio è quindi cambiato nel corso degli anni.
Da diversi anni Cgil, Cisl, Uil hanno scelto di celebrare la giornata del 1 Maggio promovendo una manifestazione nazionale dedicata ad uno specifico tema. E' diventato un appuntamento anche il tradizionale concerto rock che i sindacati confederali organizzano in piazza San Giovanni a Roma.
Valutazioni sul Disegno di legge 3249 - OCCORRE UNA RIFORMA CONTRO LA CONTRO RIFORMA (...)
Giorgio Manganelli (ne “la Metamorfosi del Gran Guaritore” ) scrive: “una legge giusta è più vessatoria di una legge ingiusta perché ti vuole suo complice”. Ed è con questo segreto timore che chi scrive seguiva l’avvio del dibattito mass mediologico sulla “riforma del lavoro”. Nessuno, infatti, può negare il presupposto da cui nasce la necessità di una riforma e cioè il vero e proprio disastro compiuto dalle leggi che si sono succedute dalla fine degli anni 80 e poi con sempre maggiore velocità a partire dal 1997 con il famoso pacchetto Treu, e poi la riforma dei contratti a tempo determinato del 2001, la legge Biagi del 2003, il collegato lavoro del 2010 e il famigerato “art.8“ del 2011 per arrivare al cd Salva Italia del 2012 che imponendo l’età pensionabile più alta d’Europa ha definitivamente bloccato ogni possibile turn over (e questo per citare solo i provvedimenti principali voluti dalle forze che oggi sostengono il Governo). Si è infatti deciso di condannare le ultime due generazioni alla precarietà assoluta togliendo loro ogni prospettiva di una costruzione di una “vita libera e dignitosa”. E le si è usate per impoverire di salario e diritti i lavoratori già nel mercato spingendo così l’imprenditoria italiana a competere sempre più sul costo del lavoro e la disciplina di fabbrica abbandonando ogni seria innovazione di prodotto o processo e ogni politica industriale e di ricerca. E da ciò è conseguito il progressivo e inarrestabile tracollo contemporaneo della capacità produttiva del paese, dei consumi e della democrazia nel suo insieme che era stata disegnata dalla Carta proprio fondandola sulla capacità di sorveglianza ed espansione della stessa ad opera delle lavoratrici e dei lavoratori. In questo quadro una riforma che davvero mettesse fine al dilagare della precarietà (consentendo ai lavoratori una cornice di diritti condivisi da cui ripartire per la riconquista della dignità del lavoro con rinnovate regole sulla loro capacità di effettiva rappresentanza) e che finalmente tendesse all’universalizzazione del riconoscimento del diritto ad un reddito per consentire una vita libera e dignitosa anche a tutti i non occupati (all’interno di una rinnovata capacità del pubblico di orientare lo sviluppo nell’economia reale privilegiando ricerca, sviluppo di qualità e progressiva conversione ecologica) di certo avrebbe potuto in astratto legittimare rinunce anche importanti a rendite di posizioni cristallizzate a tutti gli attori chiamati a giocare la partita di un mercato più giusto (non solo lavoratori e datori cioè, ma anche sindacati, pubblica amministrazione, giudici, avvocati, partiti ed enti locali).
Ebbene dopo aver letto il Disegno di legge 3249, meglio noto come “Riforma Monti – Fornero” (finalmente reso pubblico dopo molti mesi di sole battute giornalistiche), l’unico favorevole apprezzamento che si può fare è che ci evita completamente di correre il rischio evidenziato da Manganelli. E’ infatti una riforma profondamente ingiusta che quindi non consente a nessuno che davvero abbia a cuore le premesse da cui è partita di essere “complice” della stessa.
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§. 1
Sulla cd “flessibilità in entrata”

Al riguardo si rileva come rimanga pressoché intatto l’immane supermarket della precarietà disegnato dal Dlgs 276/2003 semplicemente prevedendosi un’ipotesi di parziale trasferimento di precariato dal lavoro (finto) autonomo al lavoro subordinato (finto) a termine. Ed infatti la decisione di rendere possibile la copertura del posto di lavoro più stabile immaginabile con contratti a termine o in somministrazione accendibili in assenza di qualsivoglia “esigenza di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” purché di durata non superiore a “sei mesi” (che però possono comunque in assenza di proroga proseguire per altri “50 giorni” senza dar luogo a conversione) ci esenta dal valutare più nel dettaglio la cosmesi operata su alcuni altri istituti della cosiddetta “flessibilità in entrata”, che per altro una lettura sincera dei dati ci dice che è anche e soprattutto una “flessibilità in uscita” essendo una minoranza i contratti precari che divengono autonomamente stabili. Se poi si pone mente che non è stata introdotta alcuna norma di salvaguardia analoga a quella prevista per l’apprendistato all’art. 5 (che impone come “l’assunzione di nuovi apprendisti è subordinata alla prosecuzione del rapporto di lavoro al termine del periodo di apprendistato, nei trentasei mesi precedenti la nuova assunzione, di almeno il 50 per cento degli apprendisti dipendenti dallo stesso datore di lavoro”), ciò significa che al momento di eventuale entrata in vigore della presente normativa un datore di lavoro, del tutto legittimamente, potrà costruire pressoché la propria intera forza lavoro di basso livello su contratti precari purché ogni sei mesi li sostituisca (utilizzando i “50 giorni” di sforamento graziosamente concessi per il passaggio delle consegne e una breve formazione che gli uscenti dovranno fornire agli entranti). Esattamente come la legge 247/2007 nell’introdurre il limite dei “36 mesi” massimi nell’utilizzazione dello stesso lavoratore a termine ad opera del medesimo datore non ha pacificamente prodotto nessuna stabilizzazione bensì solo una ulteriore ”precarizzazione del precariato” con sostituzione della forza lavoro non appena giunta al suo limite di “scadenza” , ugualmente l’unico esito della attuale riforma Fornero - non appena andrà davvero a regime - è accorciare ulteriormente la scadenza del prodotto lavoro a solo sei mesi (ancorchè graziosamente consumabile pure nei 50 giorni successivi). Non a caso gli alti lai della Confindustria, al netto dell’inevitabile gioco delle parti, riguardano essenzialmente una partita emendativa che tolga il modesto maggior costo del lavoro subordinato a termine acausale (che per altro non finisce nelle tasche dei precari), che allunghi di qualche mese la durata solo semestrale del turn over (che potrebbe qua e la costare qualche sbaglio o qualche eccessiva fatica nel trovare il sostituto giusto in così poco tempo), e che ammorbidisca la disciplina sulle false partite iva in quanto riferentisi a quelle maggiori professionalità (del tutto minoritarie) che non si consumano in sei mesi e la cui integrale “spremitura a freddo” necessita di qualche anno. Chi crede nei presupposti da cui la riforma dichiarava di voler partire a questo gioco emendativo si deve sottrarre. Se si vuole un mercato del lavoro più giusto (e che al contempo rilanci lo sviluppo) il primo necessario passo è strappare questo testo e ricominciare. Nel curioso dibattito mas mediatico italiano si prova a distinguere tra una flessibilità buona ed una cattiva; chi scrive non ha ben compreso cosa ciò significhi ma se proprio si deve inserire una distinzione si potrebbe dire che vi è una “flessibilità cattiva” ovverosia quella causata da un sistema produttivo che non sa puntare sulla valorizzazione del lavoro ma solo sul suo basso costo e la sua ricattabilità, ed una “flessibilità pessima” e cioè quella di un legislatore che - invece di contrastare ciò - frantuma e riduce ancora più questa naturale tendenza del sistema produttivo italiano ed è proprio quella che si è perseguita con decenni di pessime leggi e che quest’ultima si appresta a portare al punto massimo.
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§. 2
Sulla cd “flessibilità in uscita”

La vulgata giornalistica sulla riforma all’art. 18 sostiene come l’unica novità che si intenderebbe introdurre sia semplicemente la facoltà per il Giudice di ordinare - nei casi più dubbi - un indennizzo economico tra le 12 e le 24 mensilità in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro. Prescindendo ora dalla limitazione del risarcimento del danno inserita anche per il caso del reintegro (di cui parleremo a seguire), rileviamo come tale meccanismo sia effettivamente stato inserito ma solo “nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa” (art. 14, comma 4°) ovverosia nel caso di licenziamento disciplinare rivelatosi illegittimo in corso di giudizio. Ebbene tale previsione ovviamente ha il deliberato intento – e il conseguente effetto – di diminuire la tutela del lavoratore togliendo la certezza che anche in caso di accusa falsa o esagerata sia possibile ottenere con sicurezza la reintegrazione al contempo aumentando la ricattabilità sul posto di lavoro e l’arbitrarietà nelle conseguenti decisioni della magistratura. E con ciò si riesce finalmente ad intaccare – quale prima e non certo ultima tappa - l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, ultimo presidio di contrasto all’abuso nel rapporto di lavoro che le lotte dei lavoratori e la pubblica opinione erano riusciti a salvare da un trentennio di leggi di progressiva precarizzazione e impoverimento del lavoro. Obiettivo a cui va aggiunto per altro l’ulteriore allontanamento dell’Italia dall’Europa ove la cd “rigidità in uscita” è in media assai superiore a quella italiana. Ebbene se la riforma fosse tutta qui sarebbe un vero disastro. Il punto è che non è tutta qui essendo assai peggiore e - per illustrare sinteticamente quanto - si possono allora affrontare i seguenti snodi della nuova normativa
1. Licenziamenti discriminatori;
2. Licenziamenti per giustificato motivo oggettivo non di natura economica;
3. Licenziamenti per giustificato motivo oggettivo di natura economica;
4. Licenziamenti per vizi cd “formali”
5. Licenziamenti collettivi.
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1.
Licenziamento discriminatorio e affini.
Una delle più straordinarie menzogne prodottesi nel dibattito mass mediatico che si è trascinato nel paese dallo scorso gennaio riguardava queste due affermazioni
- l’art. 18 viene integralmente salvato per quanto attiene ai “licenziamenti discriminatori”;
- ed anzi lo stesso è meritoriamente esteso anche alle aziende con meno di quindici dipendenti;
Entrambe le affermazioni sono straordinariamente false. Ed infatti l’art. 18 non si occupava di licenziamenti discriminatori la cui tutela era presente nel nostro ordinamento da ben prima dello Statuto dei Lavoratori essendo stata introdotta con l’art. 4 della Legge 604 del 1966 (che ovviamente riguardava tutte le imprese a prescindere dal numero dei dipendenti) il quale recita come segue: “Il licenziamento determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall'appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali é nullo, indipendentemente dalla motivazione adottata”. Ciò significa che nel caso l’art. 18 venisse integralmente abrogato senza sostituirlo con nessun altra disposizione il divieto permarrebbe ugualmente, ed anzi la normativa di risulta sarebbe di maggior favore. Ed infatti la disciplina codicistica relativamente agli atti di recesso nullo da un contratto di durata comporta comunque il ripristino del rapporto ed il risarcimento dell’intero danno che invece risulta in ogni caso limitata affermando il comma 4° del nuovo art. 18 come “in ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto”, e ciò quand’anche il processo dovesse durare ben di più in costanza di disoccupazione del lavoratore licenziato discriminatoriamente. E a ciò si aggiunge come venga inserita la previsione (si veda art. 19 III comma) per cui anche in caso di sentenza di reintegro ex art. 18 in sede di appello “alla prima udienza, la corte può sospendere l’efficacia della sentenza reclamata se ricorrono gravi motivi” (potestà che sino ad oggi la Giurisprudenza ha sempre escluso), con l’effetto che se poi dovesse invece essere confermata la sentenza del primo grado anche le retribuzioni intercorrenti dall’inibitoria alla sentenza risulteranno definitivamente perse. Va per altro aggiunto come il legislatore neppure volendo avrebbe potuto non offrire tutela a tali licenziamenti – di per sé da sempre vietati dal combinato disposto dell’art. 1322 c.c. che consente di dare valore giuridico ai negozi solo qualora “siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico” e dai principi della Carta Costituzionale – alla luce dei reiterati regolamenti della Comunità Europea. Ed anzi va detto come il Governo, limitandosi sostanzialmente a richiamare la nozione di licenziamento discriminatorio del 1966 - a cui aggiunge l’inevitabile richiamo al licenziamento a causa di matrimonio (si presume tale se intimato tra la richiesta di pubblicazioni e un anno dopo la celebrazione) , per gravidanza o adozione (fino ad un anno d’età o dell’ingresso nel nucleo familiare del bambino) e collegati all’utilizzo del congedo parentale ; per motivo illecito unico e determinante - manca l’occasione di attualizzare la nozione proprio alla luce dell’evoluzione Giurisprudenziale e Comunitaria. Ed infatti con i decreti legislativi 216/2003 e 150/2011 (di attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro) si sancisce il principio generale di parità di trattamento, precisando all’art.2 la nozione di discriminazione e all’art.3 il suo ambito di applicazione. E proprio tale normativa di recepimento della disciplina comunitaria impone al Giudice di tenere conto ai fini della valutazione della discriminazione “che l'atto o comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento” (art. 4, comma 6 Dlgs 216/2003). E per altro proprio tale risultato era stato già raggiunto in via ermeneutica dalla Giurisprudenza maggiormente sensibile ai valori costituzionali affermando essa l’equiparazione normativa del licenziamento ritorsivo o di rappresaglia al licenziamento discriminatorio, interpretazione da oggi resa più difficile dalla mancato espresso inserimento di tale casuale (di gran lunga la più frequente tra i motivi di licenziamento discriminatorio) nel nuovo testo normativo. Insomma il nuovo art 18 non solo non estende la tutela ma la riduce pericolosamente anche per i licenziamenti discriminatori.

2.
Licenziamenti per giustificato motivo oggettivo non di natura economica.
La categoria del licenziamento per motivo oggettivo riguarda quei licenziamenti non causati da una condotta colposa o dolosa del lavoratore ma da condizioni “oggettive”. Al riguardo il nuovo testo dell’art. 18 disciplina separatamente quelli legati alla soppressione del posto di lavoro da quelli invece connessi al lavoratore ma per condotte che non possono essere ad egli addebitate a titolo di colpa e cioè a) i lavoratori che diventano inabili allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di infortunio o malattia b) i disabili obbligatoriamente assunti, in caso di aggravamento o di variazioni dell’organizzazione del lavoro, sia ove gli stessi abbiano chiesto l’accertamento della compatibilità delle mansioni affidate con le proprie condizioni di salute, sia ove il datore di lavoro abbia ritenuto di non poterli più utilizzare in azienda, anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro ; c) i lavoratori con sopravvenuta inidoneità fisica o psichica; d) i casi di superamento del periodo massimo di conservazione del posto in caso di malattia .
Ebbene in tali casi obiettivamente o la causale del licenziamento è vera (il lavoratore portatore di handicap si è davvero aggravato divenendo inabile o inidoneo, davvero non vi sono mansioni compatibili e davvero il lavoratore è stato assente per malattia oltre il limite massimo previsto dalla contrattazione per la conservazione del suo posto di lavoro) e allora il licenziamento è legittimo ed egli nulla deve avere dal datore. Ma se le causali non sono vere (oppure se la malattia o invalidità è stata colposamente o dolosamente cagionata dal datore) allora non vi è davvero dubbio che tali licenziamenti siano stati intimati con l’unico motivo illecito della non piena condizione di salute dei lavoratori. Ebbene non aver inserito tali recessi nelle previsioni dettate per i licenziamenti discriminatori e averne invece equiparato la tutela a quelli per motivi disciplinari (?!) rende bene il grado di ferocia della nuova normativa. Ciò che si suggerisce – infatti – è che i malati e i portatori di handicap sono oggettivamente un peso per la competitività delle aziende, e quindi o la loro malattia è in via di guarigione e il loro handicap lieve (e allora possono ambire al reintegro) oppure si accontentino di una sommetta e stiano a casa nella speranza di un sussidio pubblico.

3.
Licenziamenti per giustificato motivo oggettivo di natura economica.
Tali licenziamenti sono invece quelli che l’art. 3 seconda parte della legge n. 604/1966 definisce come determinati “da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. Ebbene in tali casi – qualora il motivo posto a fondamento del recesso sia falso o comunque non bastevole a sorreggere la liceità del recesso – viene previsto il mero indennizzo da 12 a 24 mensilità aggiungendo la norma (al 7° comma del nuovo testo dell’art. 18) come il Giudice, però, “può altresì applicare la predetta disciplina nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”.
Tale formulazione ovviamente non solo è deprecabile perché sostanzialmente pare invertire la norma (reintegro) con l’eccezione (indennizzo) ma desta davvero sconcerto per due motivazioni
a. dapprima perché a memoria di chi scrive è la prima volta che viene utilizzato nella disciplina lavoristica il verbo “può” in relazione alla risposta sanzionatoria che un Giudice deve dare ad una condotta prevista come illegittima dalla legge. Ed infatti – in assenza di migliore specificazione – ciò che si suggerisce al Giudicante non è che egli “possa” in quanto “abbia il potere”, ma possa in quanto “abbia una mera facoltà potestativa” e quindi che anche nel caso in cui sia stata accertata “la manifesta insussistenza del fatto” egli comunque “può” non ordinare la reintegra. Tale previsione trasformerebbe quindi il giudizio non più reso secondo diritto ma secondo “equità” non solo stravolgendo il ruolo della giurisdizione e la certezza del diritto ma di fatto sottraendo a lavoratore ogni grado di gravame; ed infatti se il Giudice del primo grado “può” e non “deve” nessun vizio della sua decisione può essere impugnato in Appello e in Cassazione.
b. Ugualmente sconcertante appare il discrimine tra la tutela “forte” (la reintegra) e quella “debole” (l’indennizzo), ovverosia il ricorrere dell’ipotesi per cui si accerti “la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”. Ed infatti se mai si volesse trovare una differenziazione meritevole di tutela si dovrebbe distinguere i casi in cui il datore avrebbe potuto conservare il posto di lavoro del lavoratore licenziato senza particolare sforzo (ad esempio adibendolo ad altra attività scoperta per cui egli era già dotato di idonea professionalità) o se invece la conservazione del posto di lavoro, ancorchè in astratto possibile, avrebbe comportato un apprezzabile sacrificio del datore (ad esempio prevedendo una particolare e onerosa riqualificazione del lavoratore o modificando ancorchè in via marginale l’organizzazione o gli orari del lavoro al fine di riattribuire mansioni al lavoratore risultato in esubero a causa di “ragioni inerenti all'attività produttiva”). Ed invece tale vaglio viene vietato al Giudicante ribadendosi il limite “al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro” e addirittura prevedendo come se la sentenza mai provasse a valutare quanto agevole sarebbe stato per il datore conservare il posto di lavoro del dipendente questo addirittura “costituisce motivo di impugnazione per violazione di norme di diritto» . E dopo aver fatto ciò, invece, si sceglie di tutelare la meno meritevole delle ragioni ovverosia la maggiore o minore bravura dal datore nel non rendere “manifesta” l’illegittimità del licenziamento premiando furbizia e scorrettezza (quando non proprio pratiche di alterazione del materiale processuale penalmente rilevanti) e penalizzando lavoratori e datori in buona fede.
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A ciò va però aggiunto come la norma aggiunga che anche nel caso di licenziamento per motivi economici “qualora, nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele previste dal presente articolo”.
Tale passo è certo assai rilevante in quanto attesta la piena consapevolezza del Governo del fatto che la disciplina di tutela contro i licenziamento economici fasulli, attribuendo al datore la facoltà di nominare il recesso e per ciò solo scegliere una tutela affievolita per il lavoratore in caso di impugnativa e successivo accoglimento della controversia, apra un autostrada per nascondere sotto tale etichetta qualsiasi motivazione di recesso a partire dalle più abiette.
Ma per illustrare l’efficacia della norma per contrastare tali prevedibilissime pratiche pare opportuno affrontare
4.
Licenziamenti per vizi cd “formali”
Ebbene ricordiamo come il processo del lavoro sia orientato a concentrazione e speditezza, e molto più lo sarà con la nuova procedura dettata dalla riforma (si veda art 13) che impone al lavoratore di depositare il proprio ricorso giudiziario entro 180 giorni dal recesso indicando sin da tale data tutti gli elementi in fatto ed in diritto a sostegno della propria pretesa e tutti i relativi mezzi di prova, prevedendo gli art. 413 c.p.c. e ss una decadenza pressoché assoluta. Insomma tutto ciò che il lavoratore non dice e non si offre di provare con l’atto introduttivo del giudizio (che deve essere introdotto entro 180 giorni invece che entro 10 anni come avviene per le ordinarie controversie vertenti sull’applicazioni del contratto) non potrà più trovare ingresso nel processo.
Ecco perché l’art. 7 dello Statuto dei lavoratori impone l’obbligo della previa e specifica contestazione dell’addebito prima di ogni licenziamento disciplinare. Ecco perché l’art. 2 della L.604/66 imponeva l’obbligo per il datore di inviare le motivazioni del recesso in ogni altro caso su semplice richiesta del lavoratore, e perché tale previsione viene oggi meritoriamente rafforzata imponendo al datore sin da prima del licenziamento di comunicare al lavoratore in forma scritta “l’intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo e indicare i motivi del licenziamento medesimo nonché le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato” (art. 13 punto 2).
Ed ecco perché sino ad oggi la mancata previa contestazione dell’addebito disciplinare o il mancato invio dei motivo del licenziamento per motivi oggettivi hanno portato sempre e comunque alla declaratoria di nullità/inefficacia del recesso con applicazione della piena tutela. Ed infatti la mancata comunicazione dei motivi rende letteralmente impossibile al lavoratore approntare qualsivoglia difesa per illustrare la nullità/inefficacia/illegittimità del licenziamento dato che potrà apprendere le motivazioni del recesso solo al momento della costituzione in giudizio del datore quando egli sarà definitivamente decaduto da qualsivoglia contro argomentazione o prova.
Ebbene l’aspetto certamente più sconvolgente della riforma, e che davvero da il segno del degrado verso cui si tende, è che la riforma prevede che nelle ipotesi in cui datore abbia volutamente violato tali obblighi di motivazione decidendo di tenere integralmente all’oscuro il lavoratore dai motivi del recesso “si applica il regime di cui al quinto comma, ma con attribuzione al lavoratore di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi quarto, quinto o settimo”.
Ebbene sì, qui siamo al dileggio! Da un lato si rafforzano le decadenze per il lavoratore in modo che egli nulla possa dire e provare dopo quanto ha scritto con il ricorso da depositare entro 180 giorni, quindi si afferma che la tutela piena è concedibile al lavoratore solo in base agli accertamenti che il Giudice farà “sulla base della domanda del lavoratore” e dall’altro gli si impedisce di avanzare “tale domanda” costringendolo a ricorrere al buio senza neppure conoscere la “colpa” di cui è accusato o le ragioni oggettive a fondamento del suo licenziamento. Si sceglie così di premiare con una piccolissima “multa” l’imprenditore scorretto che si rifiuta di motivare il recesso nella certezza che “motivandolo” solo al momento della costituzione in giudizio (quando nulla più il lavoratore potrò replicare) se gli va bene rischia solo sei mensilità ma se gli va male di certo comunque impedirà per sempre al lavoratore di dimostrare la discriminatorietà, la palese insussistenza o comunque la propria totale estraneità al fatto tardivamente imputato, in ogni caso liberandosi così da ogni rischio di reintegra. Una vera e propria norma “criminogena” finalizzata a premiare le più scorrette pratiche e penalizzare gli imprenditori in buona fede che si atterranno all’obbligo legale di giustificazione. E l’aspetto che avrà un effetto di reale destrutturazione dell’attuale composizione della forza lavoro è l’estensione di tale norma (ancorché con improprio riferimento al terzo periodo del comma sette che disciplina l’indennizzo tra 12 e 24 mensilità) a
5.
I licenziamenti collettivi
L’art. 15 del disegno di legge infatti interviene anche sulla disciplina dei licenziamenti collettivi. Al riguardo ricordiamo come essi (introdotti nella normativa dalla legge 223 del 1991) sono quei licenziamenti che riguardano oltre 4 lavoratori licenziati per motivi economici nell’arco di 120 giorni. In tale caso non occorre il ricorrere di alcuna condizione oggettiva venendo nei fatti riconosciuto il diritto del datore alla scelta sulla complessiva quantificazione del personale necessario al suo agire di impresa. Ed ecco perché in tali casi al diritto soggettivo del lavoratore alla conservazione del posto del lavoro si sostituisce l’interesse legittimo dello stesso alla trasparenza della procedura. In altre parole nel caso di licenziamenti collettivi non si discute mai – al contrario di quanto accade in quelli individuali- sul “se” licenziare ma solo sul “quanti” licenziare (il cui vaglio è rimesso al necessario confronto con le organizzazioni sindacali sulla base della necessarie previe informazioni che l’imprenditore dovrà loro fornire ) e soprattutto sul “chi” licenziare (dovendo l’imprenditore non già scegliere arbitrariamente i dipendenti più sgraditi ma stabilire “criteri” oggettivi per scegliere i lavoratori da licenziare e quindi comunicare in forma scritta la “puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta”).
Ebbene la ormai consolidata Giurisprudenza afferma come - proprio perché l’unica tutela del posto di lavoro del dipendente è la trasparenza della procedura - il licenziamento è illegittimo e il lavoratore va reintegrato quando
- non sia stato possibile affrontare con le organizzazioni sindacali la questione relativa a “quanti” lavoratori licenziare in quanto il datore si è rifiutato nella lettera di apertura della mobilità di effettuare la specifica indicazione “dei motivi che determinano la situazione di eccedenza; dei motivi tecnici, organizzativi o produttivi, per i quali si ritiene di non poter adottare misure idonee a porre rimedio alla predetta situazione ed evitare, in tutto o in parte, la dichiarazione di mobilità”;
- non sia possibile comprendere “chi” licenziare essendosi l’imprenditore rifiutato di determinare oggetti “criteri” di scelta e/o poi effettuare la “puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta”;
- ed infine poi nel caso davvero residuale in cui il datore abbia invece effettuato tale “puntuale specificazione” ma si sia sbagliato licenziando il lavoratore Tizio al posto del lavoratore Caio (ed in tale caso con la stessa sentenza con cui si dichiara il diritto di Tizio al reintegra il Giudice deve disporre la cessazione del rapporto del lavoratore Caio)
Prevedendo poi la Giurisprudenza assolutamente maggioritaria, sin dalla nota pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite 14616 del 15.10.02, che una procedura con tali vizi “non è suscettibile di essere sanata dall’accordo sindacale, in quanto compromette la tutela dell’interesse primario del lavoratore ad una corretta instaurazione della procedura in cui si inserisce un atto (il recesso) per lui di massimo pregiudizio. …come già le Sezioni unite hanno avuto modo di precisare con la sentenza 11 maggio 2000, n. 302" (v. anche Cass. 7469/1998; 11759/1998; 265/1999)”, si veda sul punto tra le molte anche Cass. 11.4.2003 e Cass. 2 marzo 2009, n. 5034).
Ebbene in questo quadro, la nuova normativa
a. prevede come «Gli eventuali vizi della comunicazione di cui al comma 2 del presente articolo possono essere sanati, ad ogni effetto di legge, nell’ambito di un accordo sindacale concluso nel corso della procedura di licenziamento collettivo», affermando così come la norma su perché e quanti lavoratori licenziare non è posta a tutela dei lavoratori stessi, come affermano ripetutamente le Sezioni Unite della Cassazione, ma a tutela dei prerogative delle organizzazioni sindacali che possono quindi liberamente disporne sanando successivamente qualsivoglia vizio (e incentivando così ogni sorta di pratica collusiva e corruttiva).
b. Derubrica la via fraudolenta tramite cui le imprese effettuano vere e propri “pulizie etniche” scegliendosi uno per uno i lavoratori da licenziare non in base a criteri oggettivi ma del tutto arbitrari (malattie, gravidanze, piccole sanzioni disciplinari, rivendicazione di propri diritti, affiliazioni sindacali ecc.) da vizio principale - stante la ratio di tutela della trasparenza della procedura di cui alla L.223/1991 - a mero vizio di forma sanzionabile solo con “il regime di cui al terzo periodo del settimo comma del predetto articolo 18” ovverosia con un indennizzo compreso “dodici e ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione”;
c. Ed infine salvando la reintegra solo nel caso davvero estremo di “violazione dei criteri di scelta” , ipotesi che - come si è detto - non produce alcun particolare danno al datore dato che la reintegrazione di un lavoratore coincide con la contemporanea espulsione di quello erroneamente salvato al suo posto, scaricando così sulle spalle dei lavoratori il peso di questa orrenda guerra tra poveri.
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§. 3
Sui cd “ammortizzatori”

Se il profilo politico-culturale e il blocco sociale di riferimento del governo tecnico ben poteva far immaginare le sopradette iniziative di riforma in materia di rapporto di lavoro, talune affermazioni del Ministro del Lavoro lasciavano sperare qualcosa di meglio quanto meno sulla partita degli ammortizzatori. Ed è rispetto ad esse che la delusione è ancor più cocente emergendo come la tutela e il rilancio di ciò che resta del sistema industriale produttivo del paese e del lavoro stabile e dignitoso non solo non è considerato un valore da difendere ma al contrario un obiettivo da abbattere. La proposta eliminazione della indennità di mobilità per i lavoratori licenziati collettivamente significa non solo una drastica riduzione del periodo di sostegno ma il passaggio da una tutela posta a difesa dello status di lavoratore ad una elargizione di una modesta somma di denaro per dodici mesi (fino a 18 per gli ultracinquantacinquenni) a chi, ormai disoccupato, viene lasciato nel libero mercato del lavoro per “incoraggiarlo” o, meglio, “costringerlo” ad abbassare le sue pretese, anche minime, per ricercare una nuova occupazione. Pretesa evidenziata con perfetto nitore dall’art 62 che prevede come il lavoratore decada da ogni trattamento qualora “non accetti una offerta di un lavoro inquadrato in un livello retributivo non inferiore del 20 per cento rispetto all’importo lordo dell’indennità cui ha diritto”. Attenzione; non inferiore del 20 per cento rispetto alla precedente retribuzione ma rispetto “all’importo lordo dell’indennità” che a sua volta è già (si veda art. 24) pari “al 75 per cento” della retribuzione e a cui si applica una ulteriore “riduzione del 15 per cento dopo i primi sei mesi di fruizione” e una ulteriore “del 15 per cento dopo il dodicesimo mese di fruizione”. Insomma un lavoratore licenziato che percepiva 1.000 euro decadrà dal trattamento qualora non accetterà un impiego per una retribuzione pari a €.433 lordi e ciò del tutto a prescindere da che tipo di attività di tratti e con quale orario purché il posto di lavoro sia “raggiungibile mediamente in 80 minuti con i mezzi di trasporto pubblici” che con il ritorno a casa fanno 160 minuti e cioè 3 ore solo di viaggio giornaliero casa/lavoro per poco più di 300 euro netti al mese. Una ferocia “workferistica” a cui non era giunto neppure Sacconi, non a caso accompagnata dal permanere dal requisito di accesso al trattamento di sostegno al reddito di “due anni di assicurazione e almeno un anno di contribuzione nel biennio precedente l’inizio del periodo di disoccupazione” (art.23), che lascia così ancora una volta l’Italia l’unico Stato europeo (con la non commendevole né casuale compagnia di Grecia e Bulgaria) a non prevedere forme universali di sostegno al reddito.

Ma a ciò va aggiunto come venga altresì eliminata la Cassa integrazione in caso di cessazione dell’attività. In tali casi ciò che la storia italiana della “riconversione” produttiva ci ha insegnato è che solo la lotta dei lavoratori è riuscita a salvare dalla speculazione grandi insediamenti produttivi, vero e proprio patrimonio comune del paese e delle comunità locali su cui insistono. Da domani i lavoratori intesi come comunità unita e come risorsa comune per tutelare e rilanciare il sistema produttivo in crisi non ci saranno più. Ci saranno solo licenziati ciascuno a casa propria (per chi ancora ce l’ha) con l’“aspi” a calare e per pochi mesi. La riconversione industriale resta quindi questione di speculatori edilizi ed amministratori locali corrotti. Non di “riforma” degli ammortizzatori sociali, dunque, il Governo dovrebbe parlare, ma di ritorno a liberali meccanismi assicurativi che di equo, secondo principi di giustizia sociale contenuti della Carta costituzionale, nulla hanno.

venerdì 20 aprile 2012

Lettera lavoratore a Susanna Camusso

Cara Susanna, sono passati poco più di 10 anni da quando la CGIL il 23 marzo del 2002 scese in piazza con iscritti, (...) studenti e semplici cittadini per dire no alle modifcihe all’art. 18 della legge 300 del 20 maggio 1970. La CGIL era convinta, così come lo sono coloro che scrivono la presente, che non è attraverso la modifica dell’articolo 18 che si combattono precarietà e disoccupazione. Siamo convinti che oggi più che mai l’attacco allo statuto dei lavoratori sia frutto di un tentativo di rivalsa padronale che non può avere l’avallo di un sindacato come la CGIL, che chi ha redatto la presente si degna di rappresentare nei luoghi di lavoro come la forza sindacale che più di tutti si è battuta per la difesa dei lavoratori e della dignità degli stessi. Pensiamo di rappresentare tutta la base lavorativa della CGIL, e non solo, quando diciamo che il SI della CGIL alle modifiche dell’articolo 18 delude e fa riflettere sui meccanismi che troppo spesso vedono indietreggiare il sindacato dinnanzi ai turbamenti politici che da qualche tempo annebbiano il concetto di giustizia sociale. Lo ha detto la CGIL utilizzando le tue parole “l’art. 18 è una norma di civiltà”. Da parte nostra rimaniamo fermi a quelle parole e non possiamo non riflettere sul senso di giustizia insito nel testo dell’articolo 18, approvato nel 1970, dopo che molti dei nostri padri hanno dato la vita per conquistare nei luoghi di lavoro quella dignità che solo l’esistenza dell’art. 18, così come definita dalla legge 300, ha portato e continua a mantenere oggi. Cara Susanna, l’avallo alle modifiche proposte dal Governo è un errore sul quale bisogna avere il coraggio di fare un passo indietro per rispettare la base dei lavoratori. Cara Susanna, la scelta di ripiegare sull’art. 18 è una scelta non rappresentativa degli iscritti alla CGIL e di tutti i lavoratori. Fai un passo indietro e ridacci la forza di rappresentare a dovere la CGIL in tutti quegli ambiti dove solo chi sa cosa è giusto per i lavoratori può dire la propria. La perdita di consistenza dell’art. 18 non solo avallerà l’ingiustizia, ma in molti casi renderà difficile anche l’esigibilità di molti diritti sanciti da leggi e accordi. La paura di essere licenziati avrà la meglio sul buon senso e sulla lotta; l’arretramento sui diritti non farà che peggiorare la condizione dei lavoratori dentro e fuori i luoghi di lavoro. La paura ridimensionerà la capacità di lotta e di conseguenza allontanerà ulteriormente la possibilità di adeguamento del potere d’acquisto, il che comporterà l’ulteriore impoverimento delle classi medie e l’ulteriore contrazione del mercato interno. La pressione su coloro che già lavorano per ottenere un incremento produttivo finirà per ostacolare l’assunzione di nuovi lavoratori, contrastando quegli effetti positivi che qualcuno, probabilmente non in buona fede, tenta di enfatizzare. Ritenendo che il pensiero espresso in questa missiva rappresenti l’ampia maggioranza degli iscritti alla CGIL e dei lavoratori italiani, ti chiediamo di ripercorrere a ritroso quanto accaduto nelle ultime settimane e di riprendere una posizione che sia più rappresentativa di una base che oggi più di prima si sente abbandonata. Dal canto nostro continueremo a lottare e prenderemo le distanze da chiunque, in parlamento e fuori, appoggerà la modifica di una norma di civiltà come l’articolo 18 della legge 300 del 1970. Vorremmo fino in fondo pensare che la CGIL sarà capace di sottrarsi a logiche che non sono sue e che non si macchi di una simile onta contro le lavoratrici e i lavoratori Italiani. Cordiali saluti Michele Pistone A nome e per conto di attivi e delegati di diverse aziende siciliane

NO ALL'IMBROGLIO SULL'ARTICOLO 18!

I sottoscritti Rappresentanti Sindacali CGIL chiedono a Susanna Camusso e alla Segreteria Nazionale CGIL di modificare il parere positivo espresso in merito al DDL sul Mercato del Lavoro, relativamente alle modifiche apportate all’articolo 18. Siamo davanti ad una controriforma che, e sono parole del Presidente del Consiglio, rende la reintegra nel posto di lavoro un caso estremo e raro, assai improbabile nella sua applicazione concreta. La segreteria della Cgil quindi sbaglia profondamente e compromette una battaglia per il lavoro che è tanto più necessario nel momento in cui la crisi si aggrava. La sostanza del provvedimento è che l'articolo 18 viene scardinato, rendendo la reintegra nel posto di lavoro l'ultima ed estrema soluzione in caso di licenziamento ingiusto. La nuova legge renderà possibile licenziare senza la reintegra, concedendo solo un piccolo indennizzo. Siamo convinti che la stragrande maggioranza degli iscritti della Cgil non siano d’accordo con la loro segreteria, che accetta questa drastica riduzione della tutela dei lavoratori. Inoltre il provvedimento non riduce la precarietà, non rende universali per tutte le forme di lavoro e per tutte le imprese gli ammortizzatori sociali e il sostegno al reddito. Continuiamo a riconoscerci nelle parole d’ordine che la CGIL ha riportato sui moduli per la raccolta delle firme per difendere l’Articolo 18: “Il lavoro non è una merce “ “Salviamo la dignità del lavoro e delle persone che lavorano” “Il lavoro non può essere usa e getta” La mobilitazione va ripresa in ogni posto di lavoro, gli scioperi che vengono mantenuti devono diventare scioperi contro la truffa sull’articolo 18 e la controriforma sul lavoro, il Direttivo CGIL del 19 deve confermare lo Sciopero Generale in difesa dell'Articolo 18. RSU/RSA in difesa dello Statuto dei lavoratori Per adesioni: rsursaindifesalegge300@gmail.com