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lunedì 30 aprile 2012

Non Ci Toglierete Mai il Diritto di Esprimerci !!!




















Storia del 1° Maggio
Il 1 Maggio nasce come momento di lotta internazionale di tutti i lavoratori, senza barriere geografiche, né tanto meno sociali, per affermare i propri diritti, per raggiungere obiettivi, per migliorare la propria condizione.
"Otto ore di lavoro, otto di svago, otto per dormire" fu la parola d'ordine, coniata in Australia nel 1855, e condivisa da gran parte del movimento sindacale organizzato del primo Novecento. Si aprì così la strada a rivendicazioni generali e alla ricerca di un giorno, il primo Maggio, appunto, in cui tutti i lavoratori potessero incontrarsi per esercitare una forma di lotta e per affermare la propria autonomia e indipendenza.
La storia del primo Maggio rappresenta, oggi, il segno delle trasformazioni che hanno caratterizzato i flussi politici e sociali all'interno del movimento operaio dalla fine del secolo scorso in poi.

Le origini
Dal congresso dell'Associazione internazionale dei lavoratori - la Prima Internazionale - riunito a Ginevra nel settembre 1866, scaturì una proposta concreta: "otto ore come limite legale dell'attività lavorativa".
A sviluppare un grande movimento di lotta sulla questione delle otto ore furono soprattutto le organizzazioni dei lavoratori statunitensi. Lo Stato dell'Illinois, nel 1866, approvò una legge che introduceva la giornata lavorativa di otto ore, ma con limitazioni tali da impedirne l'estesa ed effettiva applicazione. L'entrata in vigore della legge era stata fissata per il 1 Maggio 1867 e per quel giorno venne organizzata a Chicago una grande manifestazione. Diecimila lavoratori diedero vita al più grande corteo mai visto per le strade della città americana.
Nell'ottobre del 1884 la Federation of Organized Trades and Labour Unions indicò nel 1 Maggio 1886 la data limite, a partire dalla quale gli operai americani si sarebbero rifiutati di lavorare più di otto ore al giorno.

1886: I "martiri di Chicago"
Il 1 Maggio 1886 cadeva di sabato, allora giornata lavorativa, ma in dodicimila fabbriche degli Stati Uniti 400 mila lavoratori incrociarono le braccia. Nella sola Chicago scioperarono e parteciparono al grande corteo in 80 mila. Tutto si svolse pacificamente, ma nei giorni successivi scioperi e manifestazioni proseguirono e nelle principali città industriali americane la tensione si fece sempre più acuta. Il lunedì la polizia fece fuoco contro i dimostranti radunati davanti ad una fabbrica per protestare contro i licenziamenti, provocando quattro morti. Per protesta fu indetta una manifestazione per il giorno dopo, durante la quale, mentre la polizia si avvicinava al palco degli oratori per interrompere il comizio, fu lanciata una bomba. I poliziotti aprirono il fuoco sulla folla. Alla fine si contarono otto morti e numerosi feriti. Il giorno dopo a Milwaukee la polizia sparò contro i manifestanti (operai polacchi) provocando nove vittime. Una feroce ondata repressiva si abbatté contro le organizzazioni sindacali e politiche dei lavoratori, le cui sedi furono devastate e chiuse e i cui dirigenti vennero arrestati. Per i fatti di Chicago furono condannati a morte otto noti esponenti anarchici malgrado non ci fossero prove della loro partecipazione all'attentato. Due di loro ebbero la pena commutata in ergastolo, uno venne trovato morto in cella, gli altri quattro furono impiccati in carcere l'11 novembre 1887. Il ricordo dei "martiri di Chicago" era diventato simbolo di lotta per le otto ore e riviveva nella giornata ad essa dedicata: il 1 Maggio.

1890: 1 maggio, per la prima volta manifestazione simultanea in tutto il mondo
Il 20 luglio 1889 il congresso costitutivo della Seconda Internazionale, riunito a Parigi, decise che "una grande manifestazione sarebbe stata organizzata per una data stabilita, in modo che simultaneamente i tutti i paesi e in tute le città, i lavoratori avrebbero chiesto alle pubbliche autorità di ridurre per legge la giornata lavorativa a otto ore".
La scelta cadde sul primo Maggio dell'anno successivo, appunto per il valore simbolico che quella giornata aveva assunto.
In Italia come negli altri Paesi il grande successo del 1 Maggio, concepita come manifestazione straordinaria e unica, indusse le organizzazioni operaie e socialiste a rinnovare l'evento anche per 1891. Nella capitale la manifestazione era stata convocata in pazza Santa Croce in Gerusalemme, nel pressi di S.Giovanni. La tensione era alta, ci furono tumulti che provocarono diversi morti e feriti e centinaia di arresti tra i manifestanti.
Nel resto d'Italia e del mondo la replica del 1 Maggio ebbe uno svolgimento più tranquillo. Lo spirito di quella giornata si stava radicando nelle coscienze dei lavoratori.

1891: la festa dei lavoratori diventa permanente
Nell'agosto del 1891 il II congresso dell'Internazionale, riunito a Bruxelles, assunse la decisione di rendere permanente la ricorrenza. D'ora in avanti il 1 Maggio sarebbe stato la "festa dei lavoratori di tutti i paesi, nella quale i lavoratori dovevano manifestare la comunanza delle loro rivendicazioni e della loro solidarietà".

Il primo maggio durante il fascismo
Nel nostro Paese il fascismo decise la soppressione del 1 Maggio, che durante il ventennio fu fatto coincidere il con la celebrazione del 21 aprile, il cosiddetto Natale di Roma. Mentre la festa del lavoro assume una connotazione quanto mai "sovversiva", divenendo occasione per esprimere in forme diverse (dal garofano rosso all'occhiello, alle scritte sui muri, dalla diffusione di volantini alla riunione in osteria) l'opposizione al regime. Il 1 Maggio tornò a celebrarsi nel 1945, sei giorno dopo la liberazione dell'Italia.

1947: L'eccidio di Portella della Ginestra
La pagina più sanguinosa della festa del lavoro venne scritta nel 1947 a Portella della Ginestra, dove circa duemila persone del movimento contadino si erano date appuntamento per festeggiare la fine della dittatura e il ripristino delle libertà, mentre cadevano i secolari privilegi di pochi, dopo anni di sottomissione a un potere feudale. La banda Giuliano fece fuoco tra la folla, provocando undici morti e oltre cinquanta feriti. La Cgil proclamò lo sciopero generale e puntò il dito contro "la volontà dei latifondisti siciliani di soffocare nel sangue le organizzazioni dei lavoratori".
La strage di Portella delle Ginestre, secondo l'allora ministro dell'Interno, Mario Scelba, chiamato a rispondere davanti all'Assemblea Costituente, non fu un delitto politico. Ma nel 1949 il bandito Giuliano scrisse una lettera ai giornali e alla polizia per rivendicare lo scopo politico della sua strage. Il 14 luglio 1950 il bandito fu ucciso dal suo luogotenente, Gaspare Pisciotta, il quale a sua volta fu avvelenato in carcere il 9 febbraio del 1954 dopo aver pronunciato clamorose rivelazioni sui mandanti della strage di Portella.

Il primo Maggio oggi
Le profonde trasformazioni sociali, il mutamento delle abitudini, la progressiva omogeneizzazione delle abitudini hanno profondamente cambiato il significato di una ricorrenza che aveva sempre esaltato la distinzione della classe operaia. Il modo di celebrare il 1 maggio è quindi cambiato nel corso degli anni.
Da diversi anni Cgil, Cisl, Uil hanno scelto di celebrare la giornata del 1 Maggio promovendo una manifestazione nazionale dedicata ad uno specifico tema. E' diventato un appuntamento anche il tradizionale concerto rock che i sindacati confederali organizzano in piazza San Giovanni a Roma.
Valutazioni sul Disegno di legge 3249 - OCCORRE UNA RIFORMA CONTRO LA CONTRO RIFORMA (...)
Giorgio Manganelli (ne “la Metamorfosi del Gran Guaritore” ) scrive: “una legge giusta è più vessatoria di una legge ingiusta perché ti vuole suo complice”. Ed è con questo segreto timore che chi scrive seguiva l’avvio del dibattito mass mediologico sulla “riforma del lavoro”. Nessuno, infatti, può negare il presupposto da cui nasce la necessità di una riforma e cioè il vero e proprio disastro compiuto dalle leggi che si sono succedute dalla fine degli anni 80 e poi con sempre maggiore velocità a partire dal 1997 con il famoso pacchetto Treu, e poi la riforma dei contratti a tempo determinato del 2001, la legge Biagi del 2003, il collegato lavoro del 2010 e il famigerato “art.8“ del 2011 per arrivare al cd Salva Italia del 2012 che imponendo l’età pensionabile più alta d’Europa ha definitivamente bloccato ogni possibile turn over (e questo per citare solo i provvedimenti principali voluti dalle forze che oggi sostengono il Governo). Si è infatti deciso di condannare le ultime due generazioni alla precarietà assoluta togliendo loro ogni prospettiva di una costruzione di una “vita libera e dignitosa”. E le si è usate per impoverire di salario e diritti i lavoratori già nel mercato spingendo così l’imprenditoria italiana a competere sempre più sul costo del lavoro e la disciplina di fabbrica abbandonando ogni seria innovazione di prodotto o processo e ogni politica industriale e di ricerca. E da ciò è conseguito il progressivo e inarrestabile tracollo contemporaneo della capacità produttiva del paese, dei consumi e della democrazia nel suo insieme che era stata disegnata dalla Carta proprio fondandola sulla capacità di sorveglianza ed espansione della stessa ad opera delle lavoratrici e dei lavoratori. In questo quadro una riforma che davvero mettesse fine al dilagare della precarietà (consentendo ai lavoratori una cornice di diritti condivisi da cui ripartire per la riconquista della dignità del lavoro con rinnovate regole sulla loro capacità di effettiva rappresentanza) e che finalmente tendesse all’universalizzazione del riconoscimento del diritto ad un reddito per consentire una vita libera e dignitosa anche a tutti i non occupati (all’interno di una rinnovata capacità del pubblico di orientare lo sviluppo nell’economia reale privilegiando ricerca, sviluppo di qualità e progressiva conversione ecologica) di certo avrebbe potuto in astratto legittimare rinunce anche importanti a rendite di posizioni cristallizzate a tutti gli attori chiamati a giocare la partita di un mercato più giusto (non solo lavoratori e datori cioè, ma anche sindacati, pubblica amministrazione, giudici, avvocati, partiti ed enti locali).
Ebbene dopo aver letto il Disegno di legge 3249, meglio noto come “Riforma Monti – Fornero” (finalmente reso pubblico dopo molti mesi di sole battute giornalistiche), l’unico favorevole apprezzamento che si può fare è che ci evita completamente di correre il rischio evidenziato da Manganelli. E’ infatti una riforma profondamente ingiusta che quindi non consente a nessuno che davvero abbia a cuore le premesse da cui è partita di essere “complice” della stessa.
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§. 1
Sulla cd “flessibilità in entrata”

Al riguardo si rileva come rimanga pressoché intatto l’immane supermarket della precarietà disegnato dal Dlgs 276/2003 semplicemente prevedendosi un’ipotesi di parziale trasferimento di precariato dal lavoro (finto) autonomo al lavoro subordinato (finto) a termine. Ed infatti la decisione di rendere possibile la copertura del posto di lavoro più stabile immaginabile con contratti a termine o in somministrazione accendibili in assenza di qualsivoglia “esigenza di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” purché di durata non superiore a “sei mesi” (che però possono comunque in assenza di proroga proseguire per altri “50 giorni” senza dar luogo a conversione) ci esenta dal valutare più nel dettaglio la cosmesi operata su alcuni altri istituti della cosiddetta “flessibilità in entrata”, che per altro una lettura sincera dei dati ci dice che è anche e soprattutto una “flessibilità in uscita” essendo una minoranza i contratti precari che divengono autonomamente stabili. Se poi si pone mente che non è stata introdotta alcuna norma di salvaguardia analoga a quella prevista per l’apprendistato all’art. 5 (che impone come “l’assunzione di nuovi apprendisti è subordinata alla prosecuzione del rapporto di lavoro al termine del periodo di apprendistato, nei trentasei mesi precedenti la nuova assunzione, di almeno il 50 per cento degli apprendisti dipendenti dallo stesso datore di lavoro”), ciò significa che al momento di eventuale entrata in vigore della presente normativa un datore di lavoro, del tutto legittimamente, potrà costruire pressoché la propria intera forza lavoro di basso livello su contratti precari purché ogni sei mesi li sostituisca (utilizzando i “50 giorni” di sforamento graziosamente concessi per il passaggio delle consegne e una breve formazione che gli uscenti dovranno fornire agli entranti). Esattamente come la legge 247/2007 nell’introdurre il limite dei “36 mesi” massimi nell’utilizzazione dello stesso lavoratore a termine ad opera del medesimo datore non ha pacificamente prodotto nessuna stabilizzazione bensì solo una ulteriore ”precarizzazione del precariato” con sostituzione della forza lavoro non appena giunta al suo limite di “scadenza” , ugualmente l’unico esito della attuale riforma Fornero - non appena andrà davvero a regime - è accorciare ulteriormente la scadenza del prodotto lavoro a solo sei mesi (ancorchè graziosamente consumabile pure nei 50 giorni successivi). Non a caso gli alti lai della Confindustria, al netto dell’inevitabile gioco delle parti, riguardano essenzialmente una partita emendativa che tolga il modesto maggior costo del lavoro subordinato a termine acausale (che per altro non finisce nelle tasche dei precari), che allunghi di qualche mese la durata solo semestrale del turn over (che potrebbe qua e la costare qualche sbaglio o qualche eccessiva fatica nel trovare il sostituto giusto in così poco tempo), e che ammorbidisca la disciplina sulle false partite iva in quanto riferentisi a quelle maggiori professionalità (del tutto minoritarie) che non si consumano in sei mesi e la cui integrale “spremitura a freddo” necessita di qualche anno. Chi crede nei presupposti da cui la riforma dichiarava di voler partire a questo gioco emendativo si deve sottrarre. Se si vuole un mercato del lavoro più giusto (e che al contempo rilanci lo sviluppo) il primo necessario passo è strappare questo testo e ricominciare. Nel curioso dibattito mas mediatico italiano si prova a distinguere tra una flessibilità buona ed una cattiva; chi scrive non ha ben compreso cosa ciò significhi ma se proprio si deve inserire una distinzione si potrebbe dire che vi è una “flessibilità cattiva” ovverosia quella causata da un sistema produttivo che non sa puntare sulla valorizzazione del lavoro ma solo sul suo basso costo e la sua ricattabilità, ed una “flessibilità pessima” e cioè quella di un legislatore che - invece di contrastare ciò - frantuma e riduce ancora più questa naturale tendenza del sistema produttivo italiano ed è proprio quella che si è perseguita con decenni di pessime leggi e che quest’ultima si appresta a portare al punto massimo.
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§. 2
Sulla cd “flessibilità in uscita”

La vulgata giornalistica sulla riforma all’art. 18 sostiene come l’unica novità che si intenderebbe introdurre sia semplicemente la facoltà per il Giudice di ordinare - nei casi più dubbi - un indennizzo economico tra le 12 e le 24 mensilità in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro. Prescindendo ora dalla limitazione del risarcimento del danno inserita anche per il caso del reintegro (di cui parleremo a seguire), rileviamo come tale meccanismo sia effettivamente stato inserito ma solo “nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa” (art. 14, comma 4°) ovverosia nel caso di licenziamento disciplinare rivelatosi illegittimo in corso di giudizio. Ebbene tale previsione ovviamente ha il deliberato intento – e il conseguente effetto – di diminuire la tutela del lavoratore togliendo la certezza che anche in caso di accusa falsa o esagerata sia possibile ottenere con sicurezza la reintegrazione al contempo aumentando la ricattabilità sul posto di lavoro e l’arbitrarietà nelle conseguenti decisioni della magistratura. E con ciò si riesce finalmente ad intaccare – quale prima e non certo ultima tappa - l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, ultimo presidio di contrasto all’abuso nel rapporto di lavoro che le lotte dei lavoratori e la pubblica opinione erano riusciti a salvare da un trentennio di leggi di progressiva precarizzazione e impoverimento del lavoro. Obiettivo a cui va aggiunto per altro l’ulteriore allontanamento dell’Italia dall’Europa ove la cd “rigidità in uscita” è in media assai superiore a quella italiana. Ebbene se la riforma fosse tutta qui sarebbe un vero disastro. Il punto è che non è tutta qui essendo assai peggiore e - per illustrare sinteticamente quanto - si possono allora affrontare i seguenti snodi della nuova normativa
1. Licenziamenti discriminatori;
2. Licenziamenti per giustificato motivo oggettivo non di natura economica;
3. Licenziamenti per giustificato motivo oggettivo di natura economica;
4. Licenziamenti per vizi cd “formali”
5. Licenziamenti collettivi.
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1.
Licenziamento discriminatorio e affini.
Una delle più straordinarie menzogne prodottesi nel dibattito mass mediatico che si è trascinato nel paese dallo scorso gennaio riguardava queste due affermazioni
- l’art. 18 viene integralmente salvato per quanto attiene ai “licenziamenti discriminatori”;
- ed anzi lo stesso è meritoriamente esteso anche alle aziende con meno di quindici dipendenti;
Entrambe le affermazioni sono straordinariamente false. Ed infatti l’art. 18 non si occupava di licenziamenti discriminatori la cui tutela era presente nel nostro ordinamento da ben prima dello Statuto dei Lavoratori essendo stata introdotta con l’art. 4 della Legge 604 del 1966 (che ovviamente riguardava tutte le imprese a prescindere dal numero dei dipendenti) il quale recita come segue: “Il licenziamento determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall'appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali é nullo, indipendentemente dalla motivazione adottata”. Ciò significa che nel caso l’art. 18 venisse integralmente abrogato senza sostituirlo con nessun altra disposizione il divieto permarrebbe ugualmente, ed anzi la normativa di risulta sarebbe di maggior favore. Ed infatti la disciplina codicistica relativamente agli atti di recesso nullo da un contratto di durata comporta comunque il ripristino del rapporto ed il risarcimento dell’intero danno che invece risulta in ogni caso limitata affermando il comma 4° del nuovo art. 18 come “in ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto”, e ciò quand’anche il processo dovesse durare ben di più in costanza di disoccupazione del lavoratore licenziato discriminatoriamente. E a ciò si aggiunge come venga inserita la previsione (si veda art. 19 III comma) per cui anche in caso di sentenza di reintegro ex art. 18 in sede di appello “alla prima udienza, la corte può sospendere l’efficacia della sentenza reclamata se ricorrono gravi motivi” (potestà che sino ad oggi la Giurisprudenza ha sempre escluso), con l’effetto che se poi dovesse invece essere confermata la sentenza del primo grado anche le retribuzioni intercorrenti dall’inibitoria alla sentenza risulteranno definitivamente perse. Va per altro aggiunto come il legislatore neppure volendo avrebbe potuto non offrire tutela a tali licenziamenti – di per sé da sempre vietati dal combinato disposto dell’art. 1322 c.c. che consente di dare valore giuridico ai negozi solo qualora “siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico” e dai principi della Carta Costituzionale – alla luce dei reiterati regolamenti della Comunità Europea. Ed anzi va detto come il Governo, limitandosi sostanzialmente a richiamare la nozione di licenziamento discriminatorio del 1966 - a cui aggiunge l’inevitabile richiamo al licenziamento a causa di matrimonio (si presume tale se intimato tra la richiesta di pubblicazioni e un anno dopo la celebrazione) , per gravidanza o adozione (fino ad un anno d’età o dell’ingresso nel nucleo familiare del bambino) e collegati all’utilizzo del congedo parentale ; per motivo illecito unico e determinante - manca l’occasione di attualizzare la nozione proprio alla luce dell’evoluzione Giurisprudenziale e Comunitaria. Ed infatti con i decreti legislativi 216/2003 e 150/2011 (di attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro) si sancisce il principio generale di parità di trattamento, precisando all’art.2 la nozione di discriminazione e all’art.3 il suo ambito di applicazione. E proprio tale normativa di recepimento della disciplina comunitaria impone al Giudice di tenere conto ai fini della valutazione della discriminazione “che l'atto o comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento” (art. 4, comma 6 Dlgs 216/2003). E per altro proprio tale risultato era stato già raggiunto in via ermeneutica dalla Giurisprudenza maggiormente sensibile ai valori costituzionali affermando essa l’equiparazione normativa del licenziamento ritorsivo o di rappresaglia al licenziamento discriminatorio, interpretazione da oggi resa più difficile dalla mancato espresso inserimento di tale casuale (di gran lunga la più frequente tra i motivi di licenziamento discriminatorio) nel nuovo testo normativo. Insomma il nuovo art 18 non solo non estende la tutela ma la riduce pericolosamente anche per i licenziamenti discriminatori.

2.
Licenziamenti per giustificato motivo oggettivo non di natura economica.
La categoria del licenziamento per motivo oggettivo riguarda quei licenziamenti non causati da una condotta colposa o dolosa del lavoratore ma da condizioni “oggettive”. Al riguardo il nuovo testo dell’art. 18 disciplina separatamente quelli legati alla soppressione del posto di lavoro da quelli invece connessi al lavoratore ma per condotte che non possono essere ad egli addebitate a titolo di colpa e cioè a) i lavoratori che diventano inabili allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di infortunio o malattia b) i disabili obbligatoriamente assunti, in caso di aggravamento o di variazioni dell’organizzazione del lavoro, sia ove gli stessi abbiano chiesto l’accertamento della compatibilità delle mansioni affidate con le proprie condizioni di salute, sia ove il datore di lavoro abbia ritenuto di non poterli più utilizzare in azienda, anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro ; c) i lavoratori con sopravvenuta inidoneità fisica o psichica; d) i casi di superamento del periodo massimo di conservazione del posto in caso di malattia .
Ebbene in tali casi obiettivamente o la causale del licenziamento è vera (il lavoratore portatore di handicap si è davvero aggravato divenendo inabile o inidoneo, davvero non vi sono mansioni compatibili e davvero il lavoratore è stato assente per malattia oltre il limite massimo previsto dalla contrattazione per la conservazione del suo posto di lavoro) e allora il licenziamento è legittimo ed egli nulla deve avere dal datore. Ma se le causali non sono vere (oppure se la malattia o invalidità è stata colposamente o dolosamente cagionata dal datore) allora non vi è davvero dubbio che tali licenziamenti siano stati intimati con l’unico motivo illecito della non piena condizione di salute dei lavoratori. Ebbene non aver inserito tali recessi nelle previsioni dettate per i licenziamenti discriminatori e averne invece equiparato la tutela a quelli per motivi disciplinari (?!) rende bene il grado di ferocia della nuova normativa. Ciò che si suggerisce – infatti – è che i malati e i portatori di handicap sono oggettivamente un peso per la competitività delle aziende, e quindi o la loro malattia è in via di guarigione e il loro handicap lieve (e allora possono ambire al reintegro) oppure si accontentino di una sommetta e stiano a casa nella speranza di un sussidio pubblico.

3.
Licenziamenti per giustificato motivo oggettivo di natura economica.
Tali licenziamenti sono invece quelli che l’art. 3 seconda parte della legge n. 604/1966 definisce come determinati “da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. Ebbene in tali casi – qualora il motivo posto a fondamento del recesso sia falso o comunque non bastevole a sorreggere la liceità del recesso – viene previsto il mero indennizzo da 12 a 24 mensilità aggiungendo la norma (al 7° comma del nuovo testo dell’art. 18) come il Giudice, però, “può altresì applicare la predetta disciplina nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”.
Tale formulazione ovviamente non solo è deprecabile perché sostanzialmente pare invertire la norma (reintegro) con l’eccezione (indennizzo) ma desta davvero sconcerto per due motivazioni
a. dapprima perché a memoria di chi scrive è la prima volta che viene utilizzato nella disciplina lavoristica il verbo “può” in relazione alla risposta sanzionatoria che un Giudice deve dare ad una condotta prevista come illegittima dalla legge. Ed infatti – in assenza di migliore specificazione – ciò che si suggerisce al Giudicante non è che egli “possa” in quanto “abbia il potere”, ma possa in quanto “abbia una mera facoltà potestativa” e quindi che anche nel caso in cui sia stata accertata “la manifesta insussistenza del fatto” egli comunque “può” non ordinare la reintegra. Tale previsione trasformerebbe quindi il giudizio non più reso secondo diritto ma secondo “equità” non solo stravolgendo il ruolo della giurisdizione e la certezza del diritto ma di fatto sottraendo a lavoratore ogni grado di gravame; ed infatti se il Giudice del primo grado “può” e non “deve” nessun vizio della sua decisione può essere impugnato in Appello e in Cassazione.
b. Ugualmente sconcertante appare il discrimine tra la tutela “forte” (la reintegra) e quella “debole” (l’indennizzo), ovverosia il ricorrere dell’ipotesi per cui si accerti “la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”. Ed infatti se mai si volesse trovare una differenziazione meritevole di tutela si dovrebbe distinguere i casi in cui il datore avrebbe potuto conservare il posto di lavoro del lavoratore licenziato senza particolare sforzo (ad esempio adibendolo ad altra attività scoperta per cui egli era già dotato di idonea professionalità) o se invece la conservazione del posto di lavoro, ancorchè in astratto possibile, avrebbe comportato un apprezzabile sacrificio del datore (ad esempio prevedendo una particolare e onerosa riqualificazione del lavoratore o modificando ancorchè in via marginale l’organizzazione o gli orari del lavoro al fine di riattribuire mansioni al lavoratore risultato in esubero a causa di “ragioni inerenti all'attività produttiva”). Ed invece tale vaglio viene vietato al Giudicante ribadendosi il limite “al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro” e addirittura prevedendo come se la sentenza mai provasse a valutare quanto agevole sarebbe stato per il datore conservare il posto di lavoro del dipendente questo addirittura “costituisce motivo di impugnazione per violazione di norme di diritto» . E dopo aver fatto ciò, invece, si sceglie di tutelare la meno meritevole delle ragioni ovverosia la maggiore o minore bravura dal datore nel non rendere “manifesta” l’illegittimità del licenziamento premiando furbizia e scorrettezza (quando non proprio pratiche di alterazione del materiale processuale penalmente rilevanti) e penalizzando lavoratori e datori in buona fede.
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A ciò va però aggiunto come la norma aggiunga che anche nel caso di licenziamento per motivi economici “qualora, nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele previste dal presente articolo”.
Tale passo è certo assai rilevante in quanto attesta la piena consapevolezza del Governo del fatto che la disciplina di tutela contro i licenziamento economici fasulli, attribuendo al datore la facoltà di nominare il recesso e per ciò solo scegliere una tutela affievolita per il lavoratore in caso di impugnativa e successivo accoglimento della controversia, apra un autostrada per nascondere sotto tale etichetta qualsiasi motivazione di recesso a partire dalle più abiette.
Ma per illustrare l’efficacia della norma per contrastare tali prevedibilissime pratiche pare opportuno affrontare
4.
Licenziamenti per vizi cd “formali”
Ebbene ricordiamo come il processo del lavoro sia orientato a concentrazione e speditezza, e molto più lo sarà con la nuova procedura dettata dalla riforma (si veda art 13) che impone al lavoratore di depositare il proprio ricorso giudiziario entro 180 giorni dal recesso indicando sin da tale data tutti gli elementi in fatto ed in diritto a sostegno della propria pretesa e tutti i relativi mezzi di prova, prevedendo gli art. 413 c.p.c. e ss una decadenza pressoché assoluta. Insomma tutto ciò che il lavoratore non dice e non si offre di provare con l’atto introduttivo del giudizio (che deve essere introdotto entro 180 giorni invece che entro 10 anni come avviene per le ordinarie controversie vertenti sull’applicazioni del contratto) non potrà più trovare ingresso nel processo.
Ecco perché l’art. 7 dello Statuto dei lavoratori impone l’obbligo della previa e specifica contestazione dell’addebito prima di ogni licenziamento disciplinare. Ecco perché l’art. 2 della L.604/66 imponeva l’obbligo per il datore di inviare le motivazioni del recesso in ogni altro caso su semplice richiesta del lavoratore, e perché tale previsione viene oggi meritoriamente rafforzata imponendo al datore sin da prima del licenziamento di comunicare al lavoratore in forma scritta “l’intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo e indicare i motivi del licenziamento medesimo nonché le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato” (art. 13 punto 2).
Ed ecco perché sino ad oggi la mancata previa contestazione dell’addebito disciplinare o il mancato invio dei motivo del licenziamento per motivi oggettivi hanno portato sempre e comunque alla declaratoria di nullità/inefficacia del recesso con applicazione della piena tutela. Ed infatti la mancata comunicazione dei motivi rende letteralmente impossibile al lavoratore approntare qualsivoglia difesa per illustrare la nullità/inefficacia/illegittimità del licenziamento dato che potrà apprendere le motivazioni del recesso solo al momento della costituzione in giudizio del datore quando egli sarà definitivamente decaduto da qualsivoglia contro argomentazione o prova.
Ebbene l’aspetto certamente più sconvolgente della riforma, e che davvero da il segno del degrado verso cui si tende, è che la riforma prevede che nelle ipotesi in cui datore abbia volutamente violato tali obblighi di motivazione decidendo di tenere integralmente all’oscuro il lavoratore dai motivi del recesso “si applica il regime di cui al quinto comma, ma con attribuzione al lavoratore di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi quarto, quinto o settimo”.
Ebbene sì, qui siamo al dileggio! Da un lato si rafforzano le decadenze per il lavoratore in modo che egli nulla possa dire e provare dopo quanto ha scritto con il ricorso da depositare entro 180 giorni, quindi si afferma che la tutela piena è concedibile al lavoratore solo in base agli accertamenti che il Giudice farà “sulla base della domanda del lavoratore” e dall’altro gli si impedisce di avanzare “tale domanda” costringendolo a ricorrere al buio senza neppure conoscere la “colpa” di cui è accusato o le ragioni oggettive a fondamento del suo licenziamento. Si sceglie così di premiare con una piccolissima “multa” l’imprenditore scorretto che si rifiuta di motivare il recesso nella certezza che “motivandolo” solo al momento della costituzione in giudizio (quando nulla più il lavoratore potrò replicare) se gli va bene rischia solo sei mensilità ma se gli va male di certo comunque impedirà per sempre al lavoratore di dimostrare la discriminatorietà, la palese insussistenza o comunque la propria totale estraneità al fatto tardivamente imputato, in ogni caso liberandosi così da ogni rischio di reintegra. Una vera e propria norma “criminogena” finalizzata a premiare le più scorrette pratiche e penalizzare gli imprenditori in buona fede che si atterranno all’obbligo legale di giustificazione. E l’aspetto che avrà un effetto di reale destrutturazione dell’attuale composizione della forza lavoro è l’estensione di tale norma (ancorché con improprio riferimento al terzo periodo del comma sette che disciplina l’indennizzo tra 12 e 24 mensilità) a
5.
I licenziamenti collettivi
L’art. 15 del disegno di legge infatti interviene anche sulla disciplina dei licenziamenti collettivi. Al riguardo ricordiamo come essi (introdotti nella normativa dalla legge 223 del 1991) sono quei licenziamenti che riguardano oltre 4 lavoratori licenziati per motivi economici nell’arco di 120 giorni. In tale caso non occorre il ricorrere di alcuna condizione oggettiva venendo nei fatti riconosciuto il diritto del datore alla scelta sulla complessiva quantificazione del personale necessario al suo agire di impresa. Ed ecco perché in tali casi al diritto soggettivo del lavoratore alla conservazione del posto del lavoro si sostituisce l’interesse legittimo dello stesso alla trasparenza della procedura. In altre parole nel caso di licenziamenti collettivi non si discute mai – al contrario di quanto accade in quelli individuali- sul “se” licenziare ma solo sul “quanti” licenziare (il cui vaglio è rimesso al necessario confronto con le organizzazioni sindacali sulla base della necessarie previe informazioni che l’imprenditore dovrà loro fornire ) e soprattutto sul “chi” licenziare (dovendo l’imprenditore non già scegliere arbitrariamente i dipendenti più sgraditi ma stabilire “criteri” oggettivi per scegliere i lavoratori da licenziare e quindi comunicare in forma scritta la “puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta”).
Ebbene la ormai consolidata Giurisprudenza afferma come - proprio perché l’unica tutela del posto di lavoro del dipendente è la trasparenza della procedura - il licenziamento è illegittimo e il lavoratore va reintegrato quando
- non sia stato possibile affrontare con le organizzazioni sindacali la questione relativa a “quanti” lavoratori licenziare in quanto il datore si è rifiutato nella lettera di apertura della mobilità di effettuare la specifica indicazione “dei motivi che determinano la situazione di eccedenza; dei motivi tecnici, organizzativi o produttivi, per i quali si ritiene di non poter adottare misure idonee a porre rimedio alla predetta situazione ed evitare, in tutto o in parte, la dichiarazione di mobilità”;
- non sia possibile comprendere “chi” licenziare essendosi l’imprenditore rifiutato di determinare oggetti “criteri” di scelta e/o poi effettuare la “puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta”;
- ed infine poi nel caso davvero residuale in cui il datore abbia invece effettuato tale “puntuale specificazione” ma si sia sbagliato licenziando il lavoratore Tizio al posto del lavoratore Caio (ed in tale caso con la stessa sentenza con cui si dichiara il diritto di Tizio al reintegra il Giudice deve disporre la cessazione del rapporto del lavoratore Caio)
Prevedendo poi la Giurisprudenza assolutamente maggioritaria, sin dalla nota pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite 14616 del 15.10.02, che una procedura con tali vizi “non è suscettibile di essere sanata dall’accordo sindacale, in quanto compromette la tutela dell’interesse primario del lavoratore ad una corretta instaurazione della procedura in cui si inserisce un atto (il recesso) per lui di massimo pregiudizio. …come già le Sezioni unite hanno avuto modo di precisare con la sentenza 11 maggio 2000, n. 302" (v. anche Cass. 7469/1998; 11759/1998; 265/1999)”, si veda sul punto tra le molte anche Cass. 11.4.2003 e Cass. 2 marzo 2009, n. 5034).
Ebbene in questo quadro, la nuova normativa
a. prevede come «Gli eventuali vizi della comunicazione di cui al comma 2 del presente articolo possono essere sanati, ad ogni effetto di legge, nell’ambito di un accordo sindacale concluso nel corso della procedura di licenziamento collettivo», affermando così come la norma su perché e quanti lavoratori licenziare non è posta a tutela dei lavoratori stessi, come affermano ripetutamente le Sezioni Unite della Cassazione, ma a tutela dei prerogative delle organizzazioni sindacali che possono quindi liberamente disporne sanando successivamente qualsivoglia vizio (e incentivando così ogni sorta di pratica collusiva e corruttiva).
b. Derubrica la via fraudolenta tramite cui le imprese effettuano vere e propri “pulizie etniche” scegliendosi uno per uno i lavoratori da licenziare non in base a criteri oggettivi ma del tutto arbitrari (malattie, gravidanze, piccole sanzioni disciplinari, rivendicazione di propri diritti, affiliazioni sindacali ecc.) da vizio principale - stante la ratio di tutela della trasparenza della procedura di cui alla L.223/1991 - a mero vizio di forma sanzionabile solo con “il regime di cui al terzo periodo del settimo comma del predetto articolo 18” ovverosia con un indennizzo compreso “dodici e ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione”;
c. Ed infine salvando la reintegra solo nel caso davvero estremo di “violazione dei criteri di scelta” , ipotesi che - come si è detto - non produce alcun particolare danno al datore dato che la reintegrazione di un lavoratore coincide con la contemporanea espulsione di quello erroneamente salvato al suo posto, scaricando così sulle spalle dei lavoratori il peso di questa orrenda guerra tra poveri.
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§. 3
Sui cd “ammortizzatori”

Se il profilo politico-culturale e il blocco sociale di riferimento del governo tecnico ben poteva far immaginare le sopradette iniziative di riforma in materia di rapporto di lavoro, talune affermazioni del Ministro del Lavoro lasciavano sperare qualcosa di meglio quanto meno sulla partita degli ammortizzatori. Ed è rispetto ad esse che la delusione è ancor più cocente emergendo come la tutela e il rilancio di ciò che resta del sistema industriale produttivo del paese e del lavoro stabile e dignitoso non solo non è considerato un valore da difendere ma al contrario un obiettivo da abbattere. La proposta eliminazione della indennità di mobilità per i lavoratori licenziati collettivamente significa non solo una drastica riduzione del periodo di sostegno ma il passaggio da una tutela posta a difesa dello status di lavoratore ad una elargizione di una modesta somma di denaro per dodici mesi (fino a 18 per gli ultracinquantacinquenni) a chi, ormai disoccupato, viene lasciato nel libero mercato del lavoro per “incoraggiarlo” o, meglio, “costringerlo” ad abbassare le sue pretese, anche minime, per ricercare una nuova occupazione. Pretesa evidenziata con perfetto nitore dall’art 62 che prevede come il lavoratore decada da ogni trattamento qualora “non accetti una offerta di un lavoro inquadrato in un livello retributivo non inferiore del 20 per cento rispetto all’importo lordo dell’indennità cui ha diritto”. Attenzione; non inferiore del 20 per cento rispetto alla precedente retribuzione ma rispetto “all’importo lordo dell’indennità” che a sua volta è già (si veda art. 24) pari “al 75 per cento” della retribuzione e a cui si applica una ulteriore “riduzione del 15 per cento dopo i primi sei mesi di fruizione” e una ulteriore “del 15 per cento dopo il dodicesimo mese di fruizione”. Insomma un lavoratore licenziato che percepiva 1.000 euro decadrà dal trattamento qualora non accetterà un impiego per una retribuzione pari a €.433 lordi e ciò del tutto a prescindere da che tipo di attività di tratti e con quale orario purché il posto di lavoro sia “raggiungibile mediamente in 80 minuti con i mezzi di trasporto pubblici” che con il ritorno a casa fanno 160 minuti e cioè 3 ore solo di viaggio giornaliero casa/lavoro per poco più di 300 euro netti al mese. Una ferocia “workferistica” a cui non era giunto neppure Sacconi, non a caso accompagnata dal permanere dal requisito di accesso al trattamento di sostegno al reddito di “due anni di assicurazione e almeno un anno di contribuzione nel biennio precedente l’inizio del periodo di disoccupazione” (art.23), che lascia così ancora una volta l’Italia l’unico Stato europeo (con la non commendevole né casuale compagnia di Grecia e Bulgaria) a non prevedere forme universali di sostegno al reddito.

Ma a ciò va aggiunto come venga altresì eliminata la Cassa integrazione in caso di cessazione dell’attività. In tali casi ciò che la storia italiana della “riconversione” produttiva ci ha insegnato è che solo la lotta dei lavoratori è riuscita a salvare dalla speculazione grandi insediamenti produttivi, vero e proprio patrimonio comune del paese e delle comunità locali su cui insistono. Da domani i lavoratori intesi come comunità unita e come risorsa comune per tutelare e rilanciare il sistema produttivo in crisi non ci saranno più. Ci saranno solo licenziati ciascuno a casa propria (per chi ancora ce l’ha) con l’“aspi” a calare e per pochi mesi. La riconversione industriale resta quindi questione di speculatori edilizi ed amministratori locali corrotti. Non di “riforma” degli ammortizzatori sociali, dunque, il Governo dovrebbe parlare, ma di ritorno a liberali meccanismi assicurativi che di equo, secondo principi di giustizia sociale contenuti della Carta costituzionale, nulla hanno.

venerdì 20 aprile 2012

Lettera lavoratore a Susanna Camusso

Cara Susanna, sono passati poco più di 10 anni da quando la CGIL il 23 marzo del 2002 scese in piazza con iscritti, (...) studenti e semplici cittadini per dire no alle modifcihe all’art. 18 della legge 300 del 20 maggio 1970. La CGIL era convinta, così come lo sono coloro che scrivono la presente, che non è attraverso la modifica dell’articolo 18 che si combattono precarietà e disoccupazione. Siamo convinti che oggi più che mai l’attacco allo statuto dei lavoratori sia frutto di un tentativo di rivalsa padronale che non può avere l’avallo di un sindacato come la CGIL, che chi ha redatto la presente si degna di rappresentare nei luoghi di lavoro come la forza sindacale che più di tutti si è battuta per la difesa dei lavoratori e della dignità degli stessi. Pensiamo di rappresentare tutta la base lavorativa della CGIL, e non solo, quando diciamo che il SI della CGIL alle modifiche dell’articolo 18 delude e fa riflettere sui meccanismi che troppo spesso vedono indietreggiare il sindacato dinnanzi ai turbamenti politici che da qualche tempo annebbiano il concetto di giustizia sociale. Lo ha detto la CGIL utilizzando le tue parole “l’art. 18 è una norma di civiltà”. Da parte nostra rimaniamo fermi a quelle parole e non possiamo non riflettere sul senso di giustizia insito nel testo dell’articolo 18, approvato nel 1970, dopo che molti dei nostri padri hanno dato la vita per conquistare nei luoghi di lavoro quella dignità che solo l’esistenza dell’art. 18, così come definita dalla legge 300, ha portato e continua a mantenere oggi. Cara Susanna, l’avallo alle modifiche proposte dal Governo è un errore sul quale bisogna avere il coraggio di fare un passo indietro per rispettare la base dei lavoratori. Cara Susanna, la scelta di ripiegare sull’art. 18 è una scelta non rappresentativa degli iscritti alla CGIL e di tutti i lavoratori. Fai un passo indietro e ridacci la forza di rappresentare a dovere la CGIL in tutti quegli ambiti dove solo chi sa cosa è giusto per i lavoratori può dire la propria. La perdita di consistenza dell’art. 18 non solo avallerà l’ingiustizia, ma in molti casi renderà difficile anche l’esigibilità di molti diritti sanciti da leggi e accordi. La paura di essere licenziati avrà la meglio sul buon senso e sulla lotta; l’arretramento sui diritti non farà che peggiorare la condizione dei lavoratori dentro e fuori i luoghi di lavoro. La paura ridimensionerà la capacità di lotta e di conseguenza allontanerà ulteriormente la possibilità di adeguamento del potere d’acquisto, il che comporterà l’ulteriore impoverimento delle classi medie e l’ulteriore contrazione del mercato interno. La pressione su coloro che già lavorano per ottenere un incremento produttivo finirà per ostacolare l’assunzione di nuovi lavoratori, contrastando quegli effetti positivi che qualcuno, probabilmente non in buona fede, tenta di enfatizzare. Ritenendo che il pensiero espresso in questa missiva rappresenti l’ampia maggioranza degli iscritti alla CGIL e dei lavoratori italiani, ti chiediamo di ripercorrere a ritroso quanto accaduto nelle ultime settimane e di riprendere una posizione che sia più rappresentativa di una base che oggi più di prima si sente abbandonata. Dal canto nostro continueremo a lottare e prenderemo le distanze da chiunque, in parlamento e fuori, appoggerà la modifica di una norma di civiltà come l’articolo 18 della legge 300 del 1970. Vorremmo fino in fondo pensare che la CGIL sarà capace di sottrarsi a logiche che non sono sue e che non si macchi di una simile onta contro le lavoratrici e i lavoratori Italiani. Cordiali saluti Michele Pistone A nome e per conto di attivi e delegati di diverse aziende siciliane

NO ALL'IMBROGLIO SULL'ARTICOLO 18!

I sottoscritti Rappresentanti Sindacali CGIL chiedono a Susanna Camusso e alla Segreteria Nazionale CGIL di modificare il parere positivo espresso in merito al DDL sul Mercato del Lavoro, relativamente alle modifiche apportate all’articolo 18. Siamo davanti ad una controriforma che, e sono parole del Presidente del Consiglio, rende la reintegra nel posto di lavoro un caso estremo e raro, assai improbabile nella sua applicazione concreta. La segreteria della Cgil quindi sbaglia profondamente e compromette una battaglia per il lavoro che è tanto più necessario nel momento in cui la crisi si aggrava. La sostanza del provvedimento è che l'articolo 18 viene scardinato, rendendo la reintegra nel posto di lavoro l'ultima ed estrema soluzione in caso di licenziamento ingiusto. La nuova legge renderà possibile licenziare senza la reintegra, concedendo solo un piccolo indennizzo. Siamo convinti che la stragrande maggioranza degli iscritti della Cgil non siano d’accordo con la loro segreteria, che accetta questa drastica riduzione della tutela dei lavoratori. Inoltre il provvedimento non riduce la precarietà, non rende universali per tutte le forme di lavoro e per tutte le imprese gli ammortizzatori sociali e il sostegno al reddito. Continuiamo a riconoscerci nelle parole d’ordine che la CGIL ha riportato sui moduli per la raccolta delle firme per difendere l’Articolo 18: “Il lavoro non è una merce “ “Salviamo la dignità del lavoro e delle persone che lavorano” “Il lavoro non può essere usa e getta” La mobilitazione va ripresa in ogni posto di lavoro, gli scioperi che vengono mantenuti devono diventare scioperi contro la truffa sull’articolo 18 e la controriforma sul lavoro, il Direttivo CGIL del 19 deve confermare lo Sciopero Generale in difesa dell'Articolo 18. RSU/RSA in difesa dello Statuto dei lavoratori Per adesioni: rsursaindifesalegge300@gmail.com
MOBILITATI PER IL PAESE PER CAMBIARE LA RIFORMA DEL LAVORO NO AI LICENZIAMENTI FACILI L'articolo 18 è una questione di civiltà: se il licenziamento è illegittimo l'unico modo per evitare gli abusi è l'obbligo di reintegro. NO ALLA PRECARIETA' Il governo ha detto che avrebbe ridotto la precarietà ma con la riforma proposta continueranno a esserci 40 tipologie contrattuali precarie. Il governo ha detto che le imprese avrebbero pagato di più la precarietà, ma il lavoro parasubordinato continuerà a costare di meno del lavoro subordinato. L'ASPI, l'assicurazione sociale per l'impiego proposta dal governo, esclude proprio i precari contratti a progetto, cococo, partite iva, assegnisti di ricerca, continueranno a non avere dirtto all'assegno di disoccupazione. In futuro la copertura degli ammortizzatori sociali sarà minore per chi già ce li ha e sarà affidata alla contrattazione per chi non ha nulla. In sostanza, non c,è stato alcun allargamento del sistema di ammortizzatori, anzi. LA R.S.U SI BATTE PER CONSERVARE I DIRITTI PREVISTI DALL' ARTICOLO 18 Questo obiettivo è raggiungibile: è gia positivo aver impedito al governo l'adozione di un decreto legge dall'iter blindato. Il ricorso al disegno di legge rende possibile il dibattito parlamentare con possibilità di modifica del testo. La CGIL ha proclamato 16 ore di sciopero, otto delle quali si terranno a livello nazionale con manifestazioni locali in concomitanza con la discussione in parlamento. Le altre 8 ore di sciopero sono invece articolate a livello territoriale. R.S.U Morgan Carbon Italia

domenica 8 aprile 2012

ARTICOLO 18.IL REINTEGRO DALLA REGOLA ALL'ECCEZIONE.CONFERMATE E RAFFORZATE LE MOTIVAZIONI DELLO SCIOPERO GENERALE

In questo Paese,dalla legge 300 in poi, se un lavoratore viene licenziato illegittimamente viene reintegrato nel suo posto di lavoro con sentenza del giudice. Questa la regola semplice, di facile comprensione,persino elementare nella sua evidenza. Con un provvedimento abile per la sua stessa farraginosità il Governo trasforma quella che era una regola universale in un artificio in virtù del quale il risarcimento economico diventa la regola fondamentale e il reintegro nel posto di lavoro l'eccezione. Questo il risultato di aver ,con grande abilità, spacchettato le motivazioni del licenziamento in disciplinare, discriminatorio, economico per cancellare il principio di fondo che tutela, o meglio tutelava, i lavoratori:un licenziamento o è legittimo o non lo è. E se non lo è è sacrosanto che al lavoratore venga riconosciuto il diritto del ripristino della condizione quo ante, cioè che quel licenziamento venga dichiarato nullo. Questo il risultato di una trattativa su materie di stretta pertinenza sindacale, scippata alle organizzazioni sindacali, costrette a commentare il risultato della mediazione del Governo con le forze politiche. I lavoratori sono oggi più deboli sia nei loro diritti sia nell'esercizio della loro stessa prestazione. Gli effetti di questa normativa nell'attuale recessione, gli abusi alla luce anche della stretta sul sistema degli ammortizzatori sociali e dei guasti determinati dalla riforma previdenziale, saranno devastanti. Le motivazioni per lo sciopero generale proclamato dalla CGIL risultano ulteriormente confermate e rafforzate

Buona Pasqua Dalla R.S.U.

domenica 1 aprile 2012

I provvedimenti del governo sul mercato del lavoro, uniti alle precedenti scelte contengono un evidente tratto di ingiustizia verso lavoratori e pensionati e ripercorrono le strade di altri paesi sul superamento del modello sociale europeo. Il governo punta a imporre un ruolo residuale del sindacato confederale italiano e delle forze sociali e a introdurre un modello assicurativo individuale al posto del patto sociale storico”. Così Fulvio Fammoni, Segretario Confederale della CGIL, ha introdotto i lavori del Direttivo della CGIL riunito a Roma per discutere le contromosse del sindacato. “Nel corso dei tre anni di governo Berlusconi – ha spiegato Fammoni - abbiamo svolto un ruolo fondamentale: abbiamo tenuta aperta la speranza di cambiare. Ora dobbiamo passare ad una fase diversa dobbiamo ottenere risultati tangibili e mirare ad un disegno sociale e culturale alternativo: il primo nostro obiettivo è la modifica in parlamento delle norme proposte dal governo a partire da quelle sull'articolo 18”. Fammoni ha analizzato punto per punto tutte le proposte del governo per la riforma del mercato del lavoro, smontando anche molte delle affermazioni dello stesso governo in particolare sui giovani e gli ammortizzatori. Al contrario moltissimi sono i punti ancora non risolti, soprattutto per quanto riguarda l'accesso dei giovani e per quanto riguarda l'universalità degli ammortizzatori sociali. “Con le nuove norme – ha detto Fammoni – è molto facile prevedere che nei prossimi due/tre anni si avvii un vero e proprio processo di espulsione di massa di lavoratori ultracinquantenni che si troveranno senza lavoro e senza aver raggiunto i requisiti per la pensione. Con la fine prospettata della mobilità ci sarà un incentivo oggettivo ad espellere il maggior numero di lavoratori e le norme sul lavoro si mescoleranno a quelle sulla pensione. Migliaia di persone potrebbero così restare senza lavoro e senza pensione”. Fammoni ha criticato anche i meccanismi di accesso alla nuova Aspi e la necessità di fare di più per la cancellazione delle variegate forme di contratto falso autonomo, che nascondono lavoro subordinato a tutti gli effetti. Fammoni ha anche spiegato che il ruolo del sindacato nel corso della trattativa ha portato comunque a risultati. “Abbiamo introdotto il tema della crisi e dell'emergenza occupazione, spostato la fine degli ammortizzatori in deroga oltre il 2012. Abbiamo ottenuto che la Cassa integrazione straordinaria fosse mantenuta, mentre l'ipotesi iniziale era la sua cancellazione, una transizione di 5 anni". Altri risultati sono in tema di stage, tirocini con la cancellazione di una delle forme più precarizzanti come gli associati in partecipazione ma le proposte del governo sui licenziamenti facili e sulla cancellazione dell'istituto della mobilità non vanno bene, così come occorre un vero sistema universale di ammortizzatori sociali. Per questo la CGIL si farà carico di una sua proposta da presentare in Parlamento per cambiare quella del governo. In ogni caso la CGIL è già pronta a dare battaglia contro le norme proposte dal governo per la riforma del mercato del lavoro e in particolare per l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Una mobilitazione che sarà dura e articolata e che punta a ottenere risultati concreti durante il dibattito parlamentare della riforma. “Non sarà la fiammata che si esaurisce in un giorno che il governo ha messo in conto e abbiamo il dovere di portare a casa dei risultati prima che si avvii un biennio di espulsioni di massa nelle aziende”, ha detto oggi Fulvio Fammoni, segretario confederale, introducendo la riunione in corso del Direttivo nazionale. Ecco una prima scaletta di massima delle iniziative: 1) Petizione popolare per raccogliere milioni di firme 2) Iniziative specifiche con i giovani per contrastare le norme sbagliate sul precariato 3) Campagna nazionale a tappeto di informazione in tutti i territori 4) Prime mobilitazioni nei posti di lavoro e nei territori 5) Assemblee in tutti i luoghi di lavoro 6) Avvio del lavoro con la Consulta giuridica per i percorsi legali (ricorsi, ecc) 7) 16 ore di sciopero: 8 per le assemblee e iniziative specifiche e 8 ore in un'unica giornata con manifestazioni territoriali e assemblee nei posti di lavoro. La data sarà definita sulla base del calendario della discussione in Parlamento.
Possiamo discutere quando vogliamo, possiamo essere d'accordo o meno su questo o su quello.......di certo è che tutto ciò è una vera e propria "MACELLERIA SOCIALE" - ELIMINANDO L'ART.18 ECCO COSA ACCADRA'. .. VERRAI LICENZIATO SE: (...) 1) Sciopererai; 2) Sei donna e vuoi fare più di un figlio (ricordiamoci dei licenziamenti in bianco fatti firmare dalle giovani donne); 3) Ti ammali di una patologia invalidante e hai ridotto le tue capacità lavorative; 4) Passi un periodo di vita difficile e non dai il massimo; 5) Hai acciacchi ad una certa età che riducono le tue prestazioni (ed è molto probabile con l’allungamento dell’età lavorativa voluta dal Suo governo); 6) Sei “antipatico” al proprietario o ad un capo che ti mettono a fare lavori meno qualificati e umilianti (mobbing); 7) Chiedi il rispetto delle norme sulla sicurezza (nei luoghi di lavoro dove non esiste l’articolo 18 gli infortuni gravi e i casi mortali sono molti di più); 8) Rivendichi la dignità di lavoratore, di uomo e donna; 9) Sei politicamente scomodo (ricordiamoci dei licenziamenti e dei reparti confine degli anni 50 e sessanta); 10) Non ci stai con i superiori; 11) Contesti l’aumento del ritmo di lavoro; 12) T’iscrivi ad un sindacato vero (su 1000 lavoratori richiamati alla FIAT di Pomigliano non uno è iscritto alla FIOM); 13) Appoggi una rivendicazione salariale o di miglioramento delle condizioni di lavoro; 14) Fai ombra al superiore e se pensa che sei più bravo di lui e puoi prenderne il posto (a volte comandano più del proprietario); 15) Hai parenti stretti con gravi malattie e hai bisogno di lunghi permessi; 16) Non sei più funzionale alle strategie aziendali; 17) Reagisci male ad un’offesa di un superiore; 18) Dimostri anche allusivamente una mancanza di stima verso il capo e il proprietario; 19) Sei mamma ed hai un bimbo che si ammala spesso; 20) L'ente/azienda per cui hai dato una vita di lavoro non ha più bisogno di te.
«L'azzeramento dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non è una misura per rendere flessibile il mercato del lavoro, ma per rendere rigidi (fino al parossismo) il regime di fabbrica e la stretta sui ritmi di lavoro. (...) si vivrà sotto il ricatto permanente del licenziamento individuale "per motivi economici"; e se questo potrà colpire solo pochi lavoratori per volta - non più di dodici all'anno per azienda - funzionerà perfettamente da deterrente per tutti gli altri. Perché, con poche eccezioni, le imprese e l'imprenditoria italiana ormai impegnate a difendere i loro sempre più risicati margini di competitività contando esclusivamente sull'intensificazione dei ritmi di lavoro e la compressione dei salari, non hanno certo la cultura aziendale e la lungimiranza per farsi sfuggire un'occasione del genere: non avrebbero insistito tanto per l'abrogazione dell'art. 18. Posto fisso vuol dire accumulo di esperienza, quel patrimonio aziendale - a patto di saperlo e volerlo valorizzare - che tante imprese italiane hanno sacrificato ai vantaggi offerti dall'ingaggio del lavoro precario e malpagato. L'azzeramento dell'articolo 18 è un invito a continuare su questa strada, perché rinunciare all'esperienza dei lavoratori anziani vuol dire ricominciare ogni volta da capo e mantenersi ai livelli tecnologici più bassi. Così, quello che non sono riusciti a fare Berlusconi, Maroni e Sacconi in 17 anni, Monti lo sta portando a termine in pochi mesi. Il piatto è servito e quello che resta da fare, prima che passi in Parlamento il cosiddetto decreto sul mercato del lavoro - in realtà, sulla disciplina di fabbrica e l'ampliamento dell'"esercito industriale di riserva" - ma anche dopo, se sarà approvato, è continuare ad opporsi senza se e senza ma».